Il seme scompare per dar luogio alla pianta: senza questo sacrificio non c’è vita.
La storia dell’umanità e del popolo ebraico è un pendolo che oscilla tra l’unione con Dio e l’allontanamento da lui. Gli ebrei, gli eletti, hanno subito tra le tante prove, l’esilio all’epoca di Ge-remia. Il profeta annuncia però un tempo di riconciliazione in cui sarà costituita un’alleanza nuova ed eterna, come quella sancita con Noè. L’iniziativa di questo patto viene da Dio che scriverà la legge nel cuore degli uomini. È quello di cui parlerà San Paolo dicendo che lo Spirito abita nell’intimo dei credenti come un mae-stro interiore. Gesù offre sé stesso come vittima di espiazione e apre la porta del Regno non solo agli ebrei ma a tutta l’umanità, attuando la promessa che Dio fece ad Abramo, il cui nome ap-punto significa padre dei popoli. I greci che nel vangelo vogliono incontrare il Maestro, rappresentano i pagani che bussano alla porta del Regno, ma non potranno essere accolti se non dopo la resurrezione del Cristo. Questo è il senso dell’immagine del seme che non può dare frutto se prima non muore. Il sacrificio di un solo chicco genera una intera spiga. Gesù è il nostro modello, come da lui germoglia l’umanità nuova, così anche noi dobbiamo dare la vita per produrre frutto. Egli usa un linguaggio molto di-retto, che non lascia spazio al compromesso: per meritare l’eter-nità bisogna odiare la propria vita. Non è un invito al suicidio o allo spreco, ma a non considerare l’esistenza terrena come l’unico nostro orizzonte. Il vero amore conosce necessariamente il sacri-ficio. Non si può generare senza dolore, né si può far crescere e nutrire i propri figli senza condividere con loro il proprio pane e il proprio tempo. Gesù stesso, guardando la passione che lo aspetta, è turbato, la sua umanità, come la nostra, teme il dolore e la morte, ma è determinato a realizzare la sua missione di Sal-vatore. La glorificazione del Padre si manifesta nel sacrificio del Figlio. Anche noi possiamo essere partecipi di questa gloria ge-nerando. Infatti la fecondità è il fine del vero amore. Il chicco che non dona se stesso rimane da solo, dall’egoismo non si miete nulla. La morte e la resurrezione fanno del Cristo l’origine della nuova umanità, che non conosce confini di razza e di nazionalità. In questo si compie il giudizio del mondo. L’amore di Gesù è come una pietra che si pone sul cammino: o la si usa per salire o ci si schianta contro. Il crocifisso, innalzato da terra, attira a sé coloro che lo guardano e provano ad imitare il suo esempio. Il cristiane-simo è una scelta d’amore, non semplicemente una consuetu-dine. È più di una religione, è una vita da vivere e far vivere.
Venire alla luce vuol dire impegnare la propria libertà nell’accogliere la salvezza che ci è data gratuitamente.
Nell’Antico Testamento tutto è sempre riferito a Dio, ogni evento è frutto della sua volontà. Il popolo ignora gli ammonimenti del Signore e si attira la condanna. Sembra dunque che Dio abbia giudicato e punito il suo popolo, in realtà l’esilio è la conseguenza delle scelte che esso ha compiuto. Questo si applica anche alla nostra vita: siamo liberi e attraverso le nostre scelte decidiamo se essere o meno salvati. Si tratta di una salvezza gratuita, ma non imposta. Gesù cerca di far capire questo a Nicodemo. Egli, fariseo come San Paolo, era una delle autorità del tempio. Lo in-contriamo tre volte nel vangelo di Giovanni e questa è la prima. Egli benché affascinato da Gesù, aveva paura di manifestare il suo interesse per il Nazareno, perché temeva il giudizio dei suoi pari; così va dal Maestro di notte, per non essere visto. Gesù lo accoglie e il colloquio è molto convincente per il fariseo, tanto che questi cercherà in una occasione di difendere il Maestro davanti ai sommi sacerdoti che ne volevano l’arresto e, quando Gesù sarà deposto dalla croce, egli offrirà oli profumati e molto preziosi per la sua sepoltura. Gesù fa riferimento al libro dei Numeri (21, 4-9) dove è narrato che gli ebrei sono guariti dal morso di serpi velenose dall’immagine di un serpente di bronzo innalzata da Mosè. Per essere guariti bisognava guardare quel serpente. Al-meno alzare lo sguardo. La salvezza che viene da Gesù è gratuita. Il Padre vuole salvare tutti e cerca in ogni modo di farlo. Non condanna il mondo, ma gli offre la possibilità della vita eterna. La condizione è una sola: credere nel Figlio, cioè alzare lo sguardo su colui che, innalzato sulla croce, diventa il serpente di bronzo che salva dalla morte. Questo significa impegnare la propria li-bertà, uscire allo scoperto non nascondersi nelle tenebre. Gesù con molta delicatezza mette Nicodemo davanti alla sua respon-sabilità. A lui che è venuto al buio per paura, parla della luce che non si deve temere. Chi commette il male agisce nell’ombra, na-sconde i suoi intenti con sotterfugi e inganni. Nicodemo viene richiamato alla necessità di uscire allo scoperto perché Gesù è la Luce. Il giudizio cui il mondo è sottoposto è in realtà un autogi-dizio, perché è conseguenza di una libera scelta. È un invito a tutti noi a impegnare la nostra libertà, ad accogliere la luce senza nasconderci e senza fare compromessi. Possiamo guardare al Crocifisso ed essere testimoni coraggiosi della salvezza che gra-tuitamente egli ci dona.
Quello che per l’uomo è intoccabile non lo è per Dio: la Sua misericordia è più grande del nostro cuore!
L’invalidità e la malattia erano considerati una sorta di maledi-zione, un segno della presenza del peccato nel malato stesso o nella sua famiglia. Gli ebrei avevano orrore dell’impurità, che era normata dalla legge, e il contatto con persone, cibi o oggetti im-puri era un peccato che andava lavato con una purificazione ri-tuale. La lebbra poi era il male impuro per eccellenza. Il Levitico bandiva il lebbroso dalla società, costringendolo ad una vita mi-serabile e solitaria. Non solo, doveva anche avvertire della sua immonda presenza gridando: impuro, impuro! al suo passaggio. Una condizione miserevole e umiliante. Nonostante ciò il leb-broso del vangelo osa avvicinarsi a Gesù per chiedergli di essere guarito. Questo ci insegna qualcosa. L’obiettivo del demonio, non è solo quello di tentare e indurre al peccato, ma in generale di allontanare da Dio. Quando ottiene di far cadere qualcuno subito approfitta del suo rimorso e gli suggerisce che è indegno, sporco, che la sua colpa è troppo grossa, imperdonabile. Si tratta di una tentazione subdola e pericolosa. Dio non vuole la morte del pec-catore, tanto è vero che sacrifica suo figlio per riconciliare l’uma-nità, ed è contento quando il figliol prodigo torna sui suoi passi. Si fa festa in cielo quando un peccatore si converte (Lc 15,7) e dunque anche noi dobbiamo fare questo passo verso il Signore umilmente e senza paura. Il resto lo fa la compassione di Gesù, che non sa resistere alla preghiera di chi chiede il suo perdono. Infatti tende la mano e tocca l’intoccabile. Quello che è sporco e immondo per gli uomini non lo è per Dio! La sua misericordia è più grande della nostra. Il contatto con lui cancella la lebbra istantaneamente. La guarigione è totale, tanto del corpo che dello spirito, ma è la purificazione interiore che interessa a Gesù, men-tre la salute fisica ha solo valore di segno, di conferma delle sue parole. Lo invita a presentarsi al tempio e a compiere i riti pre-scritti dalla legge, perché il perdono, anche se è solo di Dio, passa per le mani del sacerdote. La gioia di quell’uomo è però troppo grande e non riesce a tacere. Un incontro autentico con Gesù cambia la vita. Il passo successivo alla conversione, come ci sug-gerisce S. Paolo, è l’imitazione di Cristo. Impariamo da Gesù la sua sollecitudine verso chi soffre. Ricordiamo che la sofferenza fisica è specchio di una grande sofferenza interiore e cerchiamo di imitarlo nell’andare incontro a chi è malato con lo stesso slan-cio che lo ha spinto a toccare chi doveva essere intoccabile.
Il male si combatte con la preghiera e la purezza del cuore.
Ogni uomo può mettersi in ascolto di Dio, ma il peccato osta-cola questa capacità. L’origine di tutti i peccati è la pretesa di bastare a sé stessi e di essere padroni del proprio destino. L’uomo da sempre è tentato di credere di non avere la neces-sità di un riferimento trascendente come se bastassero le sue conoscenze e capacità. È evidente che un simile atteggiamento costituisce una chiusura totale, spesso aggravata dalle mille distrazioni che ci bombardano e ci anestetizzano. Il Signore però non ci ha creati per la morte, ma per la vita. Dunque non ci abbandona a noi stessi e cerca di superare il muro della nostra indifferenza inviando dei portavoce: i profeti. Sono uo-mini che collegano la terra con il cielo, pontefici, cioè costrut-tori di ponti verso l’Infinito. Anche i profeti però sono soggetti alle tentazioni, tanto che il Deuteronomio dice che è possibile che qualcuno di loro annunci qualcosa che non viene da Dio, ma dalla sua vanagloria. Il rimedio a questo male è la dedi-zione alla vocazione. È quanto afferma San Paolo nella se-conda lettura presentando i vantaggi della verginità. Non biso-gna confondere però. Il matrimonio non vale meno della vita consacrata: semplicemente è una vocazione diversa. Si parla infatti di castità anche nel legame tra coniugi, che non signi-fica l’astenersi dai rapporti, ma la vigilanza sul proprio cuore, perché l’amore per il coniuge non sia inquinato dall’egoismo o dall’interferenza di altre passioni. Come un uomo che si lega ad una donna non deve dividere il suo cuore con amori diversi, così chi si dedica a Dio deve essere tutto per Lui, senza com-promessi. Verginità diventa allora sinonimo di dedizione e la Madonna ne è il più grande esempio. Gesù insegna con auto-rità perché domina il male e non si allontana mai dalla volontà del Padre. La sua parola è in tutto parola di Dio. Egli è il Pon-tefice per eccellenza, che rende visibile il volto del Padre e che fa udire la Sua voce. I miracoli che compie vanno nella dire-zione di rafforzare e confermare i suoi insegnamenti. A Cafar-nao guarisce l’indemoniato scacciando lo spirito impuro per dimostrare che non è come gli altri profeti che devono lottare contro il male, ma al contrario egli vince il male che lotta con-tro di lui. Noi tutti dobbiamo, sul suo esempio, diventare pon-tefici, testimoni di Dio nella vita di ogni giorno, impegnandoci a scacciare il male che chiude il nostro cuore.
I discepoli sono subito pronti a seguire la chiamata del Maestro.
Il profeta Giona fu chiamato al difficile compito di annunciare ai pagani della città di Ninive un imminente castigo. La sua risposta non fu immediata. Forse temendo che i niniviti lo perseguitassero per la sua infausta predizione, cercò di fuggire e si imbarcò per andare nella direzione opposta alla città, ma una violenta tempe-sta si abbatté sulla nave. I marinai capirono che era Giona ad attirare la cattiva sorte perciò lo gettarono in mare dove un pesce lo inghiottì per poi vomitarlo a riva dopo tre giorni. Quella che leggiamo oggi è la sua seconda vocazione, alla quale il profeta prudentemente aderì. Ben diversa è la risposta dei quattro disce-poli alla chiamata di Gesù. Domenica scorsa abbiamo letto la versione che ne dà Giovanni, il quale dice che fu Andrea a pre-sentare al Cristo suo fratello Pietro, mentre i primi tre vangeli, detti sinottici, riportano l’episodio come ci viene proposto oggi. A differenza di Giona, i quattro pescatori non hanno nessuna esi-tazione: subito lasciate le reti lo seguirono. L’evangelista Luca ar-ricchisce il racconto facendo precedere la chiamata dalla pesca miracolosa, quasi che Pietro e Andrea fossero stati affascinati da quel fatto, ma l’esito non cambia perché lo seguono immediata-mente. Quando io ho cominciato gli studi per diventare prete, lavoravo nel campo delle reti di telecomunicazioni e mi ricordo che alla mia ammissione in seminario feci ridere tutti dicendo che anch’io avevo lasciato le reti per seguire Gesù. I miei genitori erano preoccupati che io rinunciassi a un buon posto di lavoro e a una possibile carriera, ma è del tutto naturale darsi pensiero per i figli. È dunque una pazzia accogliere la sua chiamata? Sì, se la prospettiva da cui guardiamo le cose è solamente umana. Il Maestro però propone un punto di vista molto diverso: il tempo è compiuto e il Regno di Dio è vicino! Il nostro destino non è la pen-sione e la morte, ma la vita eterna. Passa la scena di questo mondo, dice Paolo nella seconda lettura, per sottolineare proprio questo. I discepoli capiscono subito che seguendo Gesù non per-dono un lavoro ma guadagnano l’eternità. La loro vita è amplifi-cata enormemente perché diventano pescatori di uomini. Se prima non si muovevano mai dalle sponde del loro lago portando a casa qualche cesta di pesci, da apostoli diventano un punto di riferimento per l’umanità di ogni tempo e con le loro reti pescano anime. Dal mare in tempesta che è il mondo, contribuiscono a salvare tanti uomini che altrimenti vi annegherebbero. È una missione entusiasmante e una opportunità che non si può per-dere.
Gesù si lascia incontrare da chi ha voglia di conoscerlo e ascoltarlo.
La vocazione del piccolo Samuele è una delle pagine più belle dell’Antico Testamento. La madre di Samuele lo aveva concepito dopo molti anni di matrimonio e tante preghiere, quando tutti pensavano che fosse sterile. Così la donna lo offrì al Signore por-tandolo ancora bambino al tempio perché servisse Dio e il sacer-dote Eli. Il racconto della vocazione fa pensare a un fatto straor-dinario, perché il piccolo sente la voce di Dio, ma in realtà il Si-gnore parla a ciascuno di noi nel cuore. Nessun uomo è un’isola, intero per se stesso, è un celeberrimo verso del poeta inglese John Donne, che esprime l’incompletezza dell’uomo solo e la reciproca dipendenza che ci lega. Il nostro cuore è inquieto perché cerca il suo completamento. Sant’Agostino nelle Confessioni, dice che lui si gettava con avidità sulle cose esteriori inseguendo una sazietà che non trovava mai, ma poi finalmente scoprì che nel cuore del suo cuore c’era l’unico amore che non tradisce mai, capace final-mente di colmare la sua solitudine. Samuele per tre volte non sa riconoscere il richiamo di Dio. Come accadde ad Agostino e come succede spesso a noi, anche lui brancola cercando di capire, cre-dendo di trovare risposte dove non ci sono. Eli, benché non fosse uno stinco di santo, gli dà la dritta giusta: sta in silenzio e renditi disponibile. Il Signore non è un’astrazione, un concetto, è una persona da incontrare a da amare. Quando i discepoli di Gio-vanni incontrano Gesù, sono le quattro del pomeriggio. È un det-taglio in apparenza superfluo che però sottolinea il contesto as-solutamente quotidiano in cui questo incontro avviene. Come dire che il Maestro entra nella nostra vita di ogni giorno, nella ferialità. Non è un’esperienza riservata ai mistici, né un miracolo. Dove abiti, gli chiedono e Gesù li invita ad andare a vedere e a trascorrere il pomeriggio con lui. Per conoscerlo bisogna frequen-tarlo, passare del tempo con lui, ascoltare le sue parole, avere cioè un rapporto personale. Io vorrei dire a tutti e specialmente a voi ragazzi, di fare come Samuele e come Andrea, di chiedere a Gesù questo incontro personale e quotidiano: portami a casa tua, parlami, io ti ascolto. Non preoccupatevi di come vi parlerà, non è necessario sentire la risposta con le orecchie, ma rendetevi di-sponibili, aprite il cuore, provate a fare un po’ di silenzio davanti a lui e l’incontro avverrà. Se ogni giorno gli facciamo posto, lo accogliamo, allora diventeremo suoi amici, lo conosceremo per-sonalmente e capiremo anche cosa ci chiede, capiremo la nostra vocazione.
Il battesimo segna l’inizio di un percorso verso il Regno e Gesù cammina con noi.
Per gli ebrei la santità implica la separazione dai peccati e da chi li commette. Il popolo eletto, essendo santo, cioè con-sacrato a Dio, deve essere separato dagli altri popoli, cosa che avviene ancora oggi. Per quella mentalità pensare che il Messia, il Santo di Dio, si metta in fila con i peccatori per farsi battezzare, è un fatto assolutamente inconcepibile. Per questo gli esegeti dicono che il battesimo di Gesù è un epi-sodio certamente accaduto, perché a nessuno scrittore ebreo sarebbe mai venuto in mente di inventare qualcosa di tanto estraneo alla tradizione. Invece l’Emmanuele, il Dio-con-noi, non solo si fa uomo, ma condivide l’esperienza degli uomini camminando vicino a loro, senza scandalizzarsi di mescolarsi ai peccatori. Egli comincia la sua vita pubblica dal Giordano, iniziando il Regno, come il suo omonimo Gio-suè. Gesù e Giosuè derivano dallo stesso nome ebraico che è traslitterato differentemente per distinguere le due figure. Giosuè è colui che guida il popolo nella terra promessa al termine dell’esodo durato quarant’anni. L’ingresso nella terra dei Padri avviene proprio dal Giordano, che si ferma davanti agli ebrei permettendo loro di attraversarlo all’asciutto come il Mar Rosso. Anche l’annuncio del nuovo Regno comincia dalle acque di quel fiume. Si tratta però di una patria spirituale che si svilupperà pienamente solo nell’ultimo giorno. Gesù è colui che ci guida verso quella meta. Il segno della sua regalità è lo Spirito Santo che scende su di lui come una colomba. Questa figura ci ricorda un altro episodio: la fine del diluvio, quando Noè lascia uscire una colomba che torna con un ramo di ulivo nel becco. Quel rametto annuncia un mondo nuovo da abitare. Allo stesso modo la colomba dello Spirito Santo ci porta Gesù che è annuncio del nuovo Regno messianico: un nuovo inizio per l’umanità. Questo ci riconduce al nostro battesimo, che ha segnato l’origine della nostra vita cri-stiana facendo di noi i cittadini di quel Regno. Come gli ebrei di allora, anche noi nell’acqua battesimale abbiamo incon-trato Gesù e il suo Spirito che ci invita
Possiamo riconoscere la sua presenza nella vita quotidiana.
La legge di Mosè prescriveva che ogni primogenito maschio ve-nisse riscattato con un sacrificio. Era il modo di ricordare l’ultima delle piaghe d’Egitto, quando il Signore fece morire tutti i primo-geniti del bestiame e del popolo, permettendo così agli israeliti di partire. I genitori di Gesù compiono questo rito andando al tem-pio. La vita della Santa Famiglia, che è cominciata con dei segni straordinari, si avvia ad essere del tutto ordinaria, anche se la presenza dello Spirito affiora negli avvenimenti quotidiani. Geru-salemme era l’unico luogo in tutto il paese dove sorgeva il tempio, perciò possiamo immaginare che, insieme a Maria e Giuseppe, molte altre famiglie fossero là quel giorno, per presentare i loro figli. Gesù dunque era un bambino come gli altri, ma il vecchio Simeone lo riconosce, perché era mosso dallo Spirito. La stessa cosa succede alla profetessa Anna, che aveva consacrato la sua vita a Dio vivendo nel tempio e pregando incessantemente. È pro-prio la preghiera che permette a questi due anziani di leggere la presenza divina nel quotidiano. Anche noi dobbiamo imparare a farlo, perché la Provvidenza muove tutte le vicende delle nostre vite. Non si sovrappone mai alla nostra libertà, ma ci offre sempre delle occasioni per riconoscere la sua presenza. La preghiera au-menta la consapevolezza. Anche oggi ci sono uomini illuminati che, come Simeone, sanno svelare alle persone il piano provvi-denziale della loro vita. Un esempio tipico dei nostri tempi è stato quello di Padre Pio, ma può succedere che il Signore si serva an-che di persone comunissime per dirci la cosa giusta al momento giusto. Maria e Giuseppe sono stupiti di questo intervento, ma è una importante conferma. I sogni e le visioni infatti sono espe-rienze molto soggettive, mentre l’incontro con una persona reale ha un valore assolutamente oggettivo. Alla Vergine Simeone pre-dice che la sua anima sarà trafitta da una spada, così come la vita del bambino sarà una lama che metterà a nudo tante con-traddizioni. Questo dolore non è una crudeltà da parte di Dio, ma indica la resistenza che il peccato e il male offrono all’intervento divino. Gli israeliti non seppero accettare il Messia e questo pro-vocò molte sofferenze, ma purtroppo anche oggi noi non siamo da meno. Gesù rinnova continuamente il suo sacrificio e conti-nua a essere rifiutato da molti. La fatica di vivere viene spesso dalla poca fiducia nella Provvidenza, che ci fa credere che tutto dipenda da noi aumentando enormemente le nostre preoccupa-zioni. Simeone ci invita a riconoscere la presenza di Gesù nel no-stro presente e a prenderlo tra le braccia. Chiediamo al Signore questa capacità.
Lasciamo che Lui agisca attraverso di noi.
Davide è una figura gigantesca dell’Antico Testamento. Secondo re d’Israele fu consacrato ancora ragazzo, compì imprese gran-diose, dall’uccisione del gigante Golia alle innumerevoli guerre e conquiste. Anche come peccatore fu grande, ma seppe sempre riconoscere le sue colpe e umiliarsi davanti a Dio. Il suo regno cominciò in clandestinità, perché fu scelto al posto di Saul che era ancora vivo e che cercò di eliminarlo con ogni mezzo, ma Da-vide seppe resistere, anche alla tentazione di uccidere il suo ri-vale, e alla fine prevalse. Fissò la sua capitale a Gerusalemme, città che conquistò con una operazione militare straordinaria, dove si costruì un palazzo degno della sua regalità. Non sem-brava giusto al re che l’Arca dell’alleanza fosse ancora sotto una tenda e voleva perciò edificare un tempio per ospitarla, ma il Si-gnore, per mezzo del profeta Natan, cambiò i suoi progetti. Non è l’uomo a costruire una casa a Dio, ma è piuttosto il contrario; è da Lui che viene gratuitamente la salvezza, non sono gli uomini a meritarsela. Il trono di Davide non sarebbe mai venuto meno perché al suo posto avrebbe regnato un suo discendente: il Mes-sia. Questa promessa si è compiuta mille anni dopo, come ci rac-conta l’evangelista Luca. Maria è il vero tempio, la vera arca, di-mora della divinità sulla terra. Quando l’angelo va da lei è solo una ragazza meno che ventenne, ma è già piena di grazia. Pochi giorni fa abbiamo ricordato la sua immacolata concezione, cioè il fatto che è nata senza la macchia del peccato originale. Ciò signi-fica che da sempre è completamente consacrata a Dio, senza compromessi. Questo è il vero significato della sua verginità: an-cor più che una caratteristica fisica, è il segno di una dedizione totale. Maria è assolutamente trasparente, la Luce può raggiun-gerla e risplendere dentro di lei senza essere minimamente offu-scata dall’ombra del peccato. Come tutte le creature è libera da-vanti al piano dell’Altissimo. La Vergine è chiamata anche la nuova Eva, perché come la progenitrice deve scegliere e lo fa pro-nunciando il suo Eccomi. La prima donna scegliendo il male è diventata la madre della morte, Maria accogliendo il Bene diviene la madre della Vita e della Chiesa. La Chiesa infatti con il batte-simo libera dal peccato originale e dalla morte, generando così la nuova umanità salvata. Da sempre l’uomo ha il desiderio di es-sere grande e cerca di farlo disastrosamente con le sue forze. Il Signore ci offre in Maria la realizzazione di questa aspirazione: anche noi dobbiamo dire il nostro eccomi, perché la Luce possa arrivare ancora nel mondo attraverso di noi. È questa disponibi-lità che rende grandi.
Accogliere questa gemma che nasce e farla crescere con noi ogni giorno.
La lettura di Isaia ci propone una vocazione. Non si tratta di quella di Isaia, che è narrata nel capitolo sesto, ma di un profeta. Il segno della sua consacrazione è l’unzione. Lo è anche per noi, l’olio è infatti usato nel battesimo, per la cresima, per l’ordine sacro e per l’unzione degli infermi. C’è però un consacrato per antonomasia: il Messia. È una parola che viene dall’ebraico e vuol dire unto, che in greco si dice Cristo. Questa unzione è il segno della presenza dello Spirito del Signore. Sembra allora che a par-lare sia il Messia stesso, che è il profeta dei profeti, colui che non è semplicemente una voce, ma la Parola stessa, il Logos, che tutti i veggenti hanno proclamato. Ce lo conferma l’evangelista Luca (4,16-21), il quale racconta che Gesù, entrato nella sinagoga di Na-zareth, lesse proprio questo brano di Isaia per annunciare la sua missione liberatrice. Infatti egli si rivolge ai miseri, a coloro che hanno il cuore spezzato, agli schiavi e ai prigionieri, che siamo noi. La miseria è la condizione di chi vive in esilio, lontano dalla patria, cioè quella dell’umanità cacciata dal paradiso terrestre. In questa lontananza il dolore e la fatica sono i compagni di viag-gio che spezzano il cuore. Il desiderio, che in termini biblici si chiama concupiscenza, ci rende schiavi delle cose o dei debiti che si fanno per averle, ed infine il peccato in generale ci rende pri-gionieri. Possiamo facilmente riconoscerci in queste quattro ca-tegorie. Il Messia viene dunque per liberarci da tutto e ridarci la dignità che abbiamo perduto in Adamo. È una grande gioia, che coltiviamo nel cuore, come un germoglio prezioso. Ecco il senso del Natale. Un bambino che nasce, una gemma che deve sboc-ciare, che noi dobbiamo far crescere con fiducia e con amore. Giovanni Battista annuncia che Lui è già qui: in mezzo a voi sta uno che voi non conoscete. Dobbiamo allora metterci nelle condi-zioni di riconoscerlo e di accoglierlo. San Paolo suggerisce come: siate sempre lieti, pregate ininterrottamente, in ogni cosa rendete grazie. La letizia viene dalla certezza che il Signore viene a libe-rarci; la preghiera ininterrotta dal desiderio che questo accada presto; il ringraziamento dalla coscienza che tutto quello che ab-biamo è un dono gratuito del Suo amore. La nostra libertà usata malamente può arrivare a spegnere lo Spirito, cioè a negare Dio e ad autocondannarci. Dobbiamo allora essere attenti nel fare discernimento, cioè nel saper distinguere ciò che è il vero bene, perché il male si traveste sempre come qualcosa di buono. La-sciamo allora che lo Spirito metta il seme della fede nel nostro cuore e facciamolo germogliare con l’acqua del battesimo e la luce della sua parola.
Siamo invitati da Giovanni Battista a ritrovare il centro del Natale: il Bambino.
Giovanni Battista è il grande annunciatore della nascita del Mes-sia. Colui che ci invita a fare spazio al Signore che viene, a pre-parargli una strada agevole, spianando le nostre distrazioni, aprendo il cuore, preparando una culla di amore e non di paglia. Il Battista è rude, non è un imbonitore ben vestito e curato che parla con dolcezza, ma avvolto da un vestito di peli di cammello, invita alla conversione. Il battesimo di Giovanni era una forma penitenziale, un segno di purificazione esteriore fatto dall’acqua che lava, per indicare un lavacro interiore. Il nostro battesimo è un sacramento, ma come quello, se non è accompagnato da una vera conversione del cuore, resta solo un segno, un rito vuoto. Da qui dobbiamo partire. Essere cristiani è una scelta, non una tradizione che abbiamo ereditato dai nostri genitori. La scelta si deve rinnovare quotidianamente, non basta farla una volta per tutte. Inoltre scegliendo si esclude qualcosa. Quando due ragazzi si sposano, rinunciano ad ogni altra possibile relazione senti-mentale. Così vale per tutte le scelte: se prendo una certa via, escludo le altre. Giovanni predica nel deserto, vicino al Giordano, per andare da lui la gente doveva fare un bel percorso a piedi lasciandosi alle spalle la città. Erano costretti a uscire dalla con-suetudine e affrontare un terreno nuovo. Il deserto poi rappre-senta la povertà e l’assenza di distrazioni. La conversione e la purificazione implicano delle rinunce. Uscire dai soliti schemi è fare una vita nuova. Se noi usciti di chiesa ci comportiamo come quelli che in chiesa non vanno, dove sta la differenza? Essere cristiani non può ridursi a quell’ora alla settimana che la messa ci richiede. Uscire dagli schemi significa allora che la nostra guida è il Vangelo e non la televisione. Oggi vanno molto di moda i sondaggi. Interpellano un campione di persone (lo faranno poi davvero?) e comunicano che la maggioranza pensa una certa cosa. Come dire che bisogna andare dietro alla corrente. Anche le pecore lo fanno. Dobbiamo poi per forza seguire la moda e ve-stirci tutti uguali? Giovanni è coperto da un povero vestito di peli di cammello, non si cura troppo del suo aspetto. Mangia frugal-mente quello che riesce a trovare nel deserto. Forse anche noi dobbiamo imparare a non sprecare il cibo per rispetto di chi ha davvero fame. Il Natale è spesso l’occasione di una grande abbuf-fata. Certo il mangiare meglio del solito è un segno di festa, ma non serve una eccessiva ricercatezza. Infine il Battista ci dice: ricordati di chi sta per arrivare. Il centro del Natale è Gesù, pre-pariamo il cuore per accoglierlo, facciamogli posto togliendo un po’ del superfluo.
L’attesa è coltivare un sogno con amore e speranza.
Vegliate, ci raccomanda Gesù nel vangelo. Inizia l’Avvento il tempo dell’attesa. In questo periodo, passando vicino a un campo seminato a grano, si cominciano a vedere le piantine come steli d’erba. Quei germogli resteranno così tutto l’inverno, magari sotto la neve, aspettando la primavera, il momento di cominciare a crescere per produrre la spiga. Un’attesa fatta di silenzio e di lunghe notti buie e fredde, ma anche fatta di speranza. È la stessa speranza del contadino, che riposa insieme alla sua terra, immaginando il sole e campi d’oro accarezzati dal vento. È questa un’attesa che scalda il cuore, che produce pazienza e la pazienza speranza, come dice San Paolo ai Romani (5, 3). Oggi forse ab-biamo dimenticato il valore dell’attesa. Il mondo ci suggerisce di non aspettare mai, di soddisfare subito tutti i desideri, ma questo paradossalmente ci proietta nel futuro, quasi che l’attendere sia tempo perso. Invece vivere il presente è rivestire l’attesa di spe-ranza, come fa la futura mamma che sente la vita muoversi den-tro di lei e sogna di suo figlio, vivendo ogni istante che prepara il suo arrivo. Noi abbiamo nel cuore la nostalgia di un mondo che non conosciamo, ma che desideriamo, un mondo di pace e di gioia, senza dolore, morte e fatica. È la Gerusalemme nuova, il Regno realizzato dal ritorno di Gesù alla fine dei tempi. E mentre facciamo la penosa esperienza dei nostri limiti, il cuore è proteso verso questo futuro eterno, che si esprime nell’invocazione che chiude il libro dell’Apocalisse: marànà tha – Vieni Signore Gesù. È questa la nostra attesa: vieni, Ti aspettiamo. Ecco il senso di queste settimane di preparazione al Natale, che ci ricordano la grande attesa della nostra vita, la meta verso cui ci fanno guar-dare la fede e la speranza. Per cui coltiviamo nel cuore questo desiderio di Dio, questa nostalgia della pace promessa agli uo-mini di buona volontà. Insegniamolo ai nostri bambini. È un modo per farlo noi stessi. Alla sera diciamo una preghiera per esprimere questa attesa. Viene Gesù, piccolo e indifeso a chie-dere il nostro amore. Anche lui aspetta. Simone Weil dice una cosa meravigliosa su questa attesa di Dio: il tempo è l’attesa di Dio che mendica il nostro amore. Quindi non siamo solo noi ad attendere Lui, ma è Lui stesso che aspetta pazientemente la no-stra conversione. Per cui non deludiamo la speranza dell’Infinito, ma sfruttiamo bene questo tempo per rinnovare il desiderio del suo Natale.
Possiamo essere coeredi del Suo Regno imitando la Sua dedizione al Padre.
Il Regno di Dio si compirà solo alla fine dei tempi quando Gesù tornerà per giudicare i vivi e i morti. Così ce lo presenta Matteo: dal trono di gloria, circondato dalla corte degli angeli, il Figlio dell’uomo separa i buoni dai cattivi. Il criterio del giudizio è l’amore per il prossimo. Soccorrendo i bisognosi si fa un servizio a Cristo stesso. Fame, sete e nudità sono necessità primarie che difficilmente troviamo vicino a noi, anche se questi anni di crisi hanno messo in difficoltà molte famiglie, per cui cerchiamo di andare incontro a chi ha bisogno. Nel nostro mondo ben pasciuto però, ci sono altri modi di essere affamati. Moltissime persone vivono senza un orizzonte spirituale e questa è una grave forma di povertà. Sfamarle significa fare apostolato, cioè essere testi-moni e annunciatori del Regno. Un dato allarmante e indicativo è la crescita dei suicidi e del consumo di stupefacenti. Troppe persone sono travolte dalla vita e non riescono a tenere il ritmo di una corsa continua al guadagno e alla carriera. Andare incon-tro alla disperazione di chi non conosce l’Amore è una delle forme di soccorso più necessarie nella nostra società. Accogliere lo stra-niero è invece una possibilità molto più immediata e attuale. Se magari non possiamo farlo in prima persona, almeno cerchiamo di farlo idealmente, rifiutando il razzismo e le generalizzazioni. Dire che gli immigrati sono tutti delinquenti, per esempio, è un’affermazione razzista e ingiusta. Numerosi gangster ameri-cani erano italiani emigrati, eppure non accetteremmo che qual-cuno per questo dicesse che gli italiani sono tutti mafiosi. Anche i malati e gli anziani sono molto vicini a noi. Non costa molto essere attenti e passare un po’ di tempo con loro. Spesso quando queste persone muoiono ci si rammarica di non aver sfruttato tante occasioni. Il Cristo crocifisso e sofferente si manifesta in tutte queste persone bisognose e ci chiede di alleviare in loro il suo dolore. Il premio è il suo Regno, ma lo è anche, e molto, sen-tire la gratitudine di questi nostri fratelli. San Paolo accosta la figura di Adamo a quella di Gesù. Come al primo dobbiamo la morte, così dal secondo riceviamo la vita. La grande differenza tra i due è che il progenitore ha cercato sé stesso, desiderando più di quanto già possedeva, mentre il Cristo ha cercato solo Dio, costruendo la sua regalità con il sacrificio di sé. Adamo deside-rando di essere come Dio, si è allontanato dalla Vita. Gesù invece ha accettato la volontà del Padre fino in fondo, proprio come avrebbe dovuto fare il nostro capostipite. In questo modo ci in-dica la strada e ci invita a rinunciare alle nostre pretese di auto-nomia per essere re insieme a lui.
Le nostre capacità non ce le siamo guadagnate, ci sono state donate. Sentiamo la responsabilità di ricambiare condividendole con gli altri.
Non si sa con precisione quanto valesse un talento, sappiamo però che corrispondeva a una cifra molto elevata; quindi il padrone affida ai suoi servi qualcosa di rilevante. In effetti noi non abbiamo ricevuto poco, anche se ci lamentiamo sempre che non basta quello che abbiamo. Proprio perché amministriamo qualcosa che non ci appartiene dovremmo sentire la responsabilità di restituire almeno in parte questi beni. Non tutti hanno ricevuto lo stesso, alcuni hanno più capacità di altri, e quanto più uno possiede tanto più dovrebbe sentire che ha un debito, non solo verso il Creatore, ma anche verso chi ha avuto meno fortuna di lui. Il Maestro non è mai stato molto tenero con gli egoisti e dice espressamente che il Regno è di difficile accesso per i ricchi, cioè per coloro che si affidano alle proprie fortune e non sanno condividerle. Siamo allora chiamati a far fruttare le nostre doti, non solo perché così guadagniamo il paradiso, ma per dare senso e sapore alla nostra vita. Essere cristiani significa amare e la caratteristica fondamentale dell’amore è la fecondità. San Tommaso diceva che l’amore diffonde sé stesso, dunque chi ama porta frutto. Non si tratta solo della fecondità biologica, ma del saper donare sé stessi. Infatti c’è chi sceglie di non avere figli e chi li fa senza sceglierlo. Se un padre non si dona ai propri figli è come se non ne fosse lui il genitore. Allo stesso modo ci sono persone che non hanno mai generato che chiamiamo senza difficoltà madri e padri, come Madre Teresa o Padre Pio. È donando noi stessi che diventiamo fecondi ed è così che mettiamo a frutto le nostre capacità. I primi due servi della parabola raddoppiano il capitale, fanno cioè il massimo, ma dalle parole di rimprovero rivolte al terzo, capiamo che il padrone si sarebbe accontentato anche dei soli interessi. Non ci è richiesto l’impossibile, ma unicamente di non sprecare le opportunità che abbiamo. La ricchezza maggiore che possiamo condividere è il servizio fatto agli altri in prima persona. Non solo verso persone sconosciute o lontane, ma anche e soprattutto verso chi ci è più prossimo. Impegnarsi perché in famiglia ci sia armonia e perché i figli crescano bene è già moltissimo. Per chi non ha figli o non è sposato è ugualmente importante l’attenzione alle persone più vicine. Il Vangelo dà anche molto valore all’elemosina, che può essere un modo di valorizzare il proprio guadagno a favore degli altri. La cosa migliore che possiamo fare è pregare per capire che cosa voglia il Signore da noi. Se infatti scopriamo la nostra vocazione e cerchiamo di viverla, sicuramente non nasconderemo i nostri talenti.
Ci vuole solo un piccolo vasetto di umiltà per essere accolti.
È bellissima la prima lettura dove si dice che la Sapienza non è difficile da trovare, anzi è lei stessa a venire incontro, a patto che ci sia la volontà di cercarla. Con questo termine si intende molto di più che un semplice sapere, ma piuttosto è uno stile di vita indirizzato alla ricerca della felicità. Se vogliamo la Sapienza dove cercarla? Dice il Siracide (1, 12): Principio della Sapienza è temere il Signore. Ciò significa che la prima cosa da fare è rendersi conto che non siamo padroni della vita e del mondo, ma che la nostra esistenza è un dono che viene da Dio. Il peccato originale è il rifiuto del primato di Dio che Adamo manifesta nel voler essere autonomo nel giudicare il bene e il male. Anche l’uomo di oggi fa così: spesso nega l’esistenza di un Creatore attribuendo al caso la nascita dell’universo e della vita, e crede che la legge morale sia una questione assolutamente soggettiva. Questa chiusura esclude dalla vita ogni riferimento a un aldilà. È il principio dell’infelicità, perché ogni pretesa di autonomia si infrange contro il limite della morte che è la prova che nessuno è padrone del proprio esistere. Infatti Gesù chiede (Mt 6, 27): chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un’ora sola alla sua vita? È sufficiente allora partire da un atto di umiltà che consiste nel riconoscere che c’è un Dio sopra di noi e che siamo creature. È il principio della Sapienza. Perché bisogna temere il Signore? Si sta come d’autunno, sugli alberi, le foglie, scriveva Ungaretti parlando dei soldati al fronte, ma questa immagine così limpida in realtà ritrae la condizione di ogni uomo, il cui essere in vita è un miracolo. Basta un piccolo squilibrio all’interno del corpo o nell’ambiente per cessare di esistere e questa precarietà ci fa alzare le braccia come bambini spauriti che chiedono aiuto. È un sano timore che viene dalla coscienza del limite e spinge ad aprirsi con confidenza a chi ci può salvare. Tutti moriremo, ma per noi che crediamo la morte non è disperazione e annientamento, mentre è tragedia senza senso se Dio non esiste. Ecco la differenza tra le vergini della parabola. Tutte aspettano lo sposo, tutte si assopiscono. È un’immagine della vita che ci assorbe, che ci distrae, ma quando lo Sposo arriva le cinque sagge hanno un vasetto di olio in più. Basta quel poco per farle ammettere alle nozze e per escludere le altre. Non ci è chiesto di avere chissà che requisiti, di essere grandi teologi o di aver compiuto imprese leggendarie, ma solo di avere un piccolo vasetto di Sapienza, una piccola dose di umiltà.
Il potere che un incarico conferisce è responsabilità e servizio, non semplicemente prestigio e riconoscimento.
Gesù parla delle autorità religiose del suo tempo e non è affatto tenero. Li accusa di essere incoerenti, perché non fanno quello che dicono, e di essere dei palloni gonfiati che amano essere riveriti. Desiderano essere chiamati rabbì, cioè maestri, perciò significa che vogliono insegnare agli altri. Il vero insegnamento però, è l’esempio. Questa parola la sento rivolta a me prima di tutto, ma può essere applicata a chiunque abbia una responsabilità educativa: genitori, insegnanti e anche personalità pubbliche. Dai genitori non si impara quello che dicono, ma quello che fanno. Non si impara l’onestà dai disonesti o la fedeltà dai fedifraghi. Così un sacerdote è credibile se dimostra di avere fede, se è capace di vivere il vangelo o almeno si sforza di farlo. I maestri o gli insegnanti che ricordiamo, non sono quelli che pigramente ci facevano lezione, ma quelli che ci hanno trasmesso la passione che avevano per la loro materia, quelli che ci hanno mostrato di avere dei principi in cui credevano, quelli che ci hanno dimostrato di volerci bene. Questa è la differenza tra ruolo e servizio. Se pensiamo al vangelo di domenica scorsa in cui il Maestro riassume tutta la legge nel comandamento dell’amore, allora si capisce il senso dell’ammonimento di Gesù. Avere attenzione per i fratelli vuol dire servirli e questo è il compito di chi ha responsabilità sugli altri. Viceversa chi si preoccupa prima di tutto di sé stesso, di essere riconosciuto ed è incapace di mettersi in discussione, allora cerca solo il potere che il ruolo gli conferisce. Gesù dice di non farsi chiamare padre, o maestro, o guida, eppure noi riconosciamo di avere un padre, anche in senso spirituale, e abbiamo o abbiamo avuto dei maestri e delle guide. Non stiamo mettendo in pratica il vangelo? Non è il significato letterale che conta qui. Gesù ci dice non fatevi chiamare, ma sforzatevi di essere padri e maestri. Cioè non cercate il ruolo, ma l’autorevolezza che legittima il ruolo. Non sgomitate per essere i primi, ma cercate di essere al servizio degli altri. San Pietro nella sua prima lettera (5,3) raccomanda ai pastori: non spadroneggiate sulle persone a voi affidate, ma fatevi modelli del gregge. Questo vale per me e per chiunque abbia responsabilità su delle persone. Tutti noi abbiamo in mente degli individui che sono incoerenti, dai sacerdoti ai governati, passando per i genitori, i dirigenti, i professori e così via. Puntare il dito sugli altri è la cosa più facile. Potremmo invece metterci in discussione, per vedere in che modo esercitiamo l’autorità del nostro ruolo, qualunque esso sia: siamo al servizio o cerchiamo solamente il nostro tornaconto?
La legge si riassume in un unico verbo: Amerai. Espresso al futuro perchè possiamo sempre migliorare.
La predicazione dei primi evangelizzatori che portavano il mes-saggio cristiano ai pagani, si basava su un semplice annuncio (kerygma in greco): Dio si è incarnato in Gesù che è morto per noi ed è risorto. Non è stato l’uomo a cercare Dio, ma è Lui che si è abbassato per trovare l’uomo. Tutto nasce da un atto di amore gratuito del Creatore, che fa piovere sui giusti e sugli in-giusti, cioè che dà la vita e la libertà ad ogni uomo. Se dunque l’Infinito si fa finito per amore nostro, noi siamo chiamati a ri-spondergli. Da qui il precetto più importante: amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Dio è padre, non solo perché dà origine alla creazione, ma soprattutto perché accompagna e fa crescere. Ogni papà si preoccupa di nutrire i suoi figli e veglia su di loro, cerca di capire come indirizzarli e correggerli e come permettere loro di realiz-zarsi. Ci vuole una grande pazienza perché da giovani si crede di sapere e di poter giudicare, per cui i genitori devono sapersi muo-vere anche con un po’ di astuzia. Dio padre fa proprio così, sop-porta la nostra pretesa di autosufficienza, ci offre molte opportu-nità ed è sempre pronto a riprenderci indietro quando torniamo scornati sui nostri passi. Se davvero lo amiamo con tutto il cuore dobbiamo fare come lui e attuare così il secondo precetto: amerai il tuo prossimo come te stesso. Come dire, amerai perché sei stato amato. La memoria è importante. Non solo per ricordare i crediti, ma anche i debiti. Il libro dell’Esodo invita proprio a questo: Non molesterai il forestiero né lo opprimerai, perché voi siete stati fore-stieri in terra d’Egitto. È piuttosto attuale questa raccomanda-zione. Siamo cristiani eppure a volte la memoria è corta, non solo dimentichiamo che anche noi siamo stati poveri e costretti ad emigrare, ma non ricordiamo nemmeno il precetto dell’amore. Da che l’uomo è al mondo il sangue che viene versato ingiustamente grida vendetta verso Dio. Ogni povero che è maltrattato, dice Dio nell’Esodo, quando invocherà da me l’aiuto, io darò ascolto al suo grido, la mia ira si accenderà e vi farò morire di spada: le vostre mogli saranno vedove e i vostri figli orfani. Perciò amare il pros-simo vuol dire vivere meglio, perché è seminare gratitudine e pre-pararsi un futuro migliore. Questo precetto è il cardine della cat-tolicità, cioè dell’universalità, della nostra fede. Non ci sono con-fini nazionali o differenze razziali che tengano. Ci fa capire anche l’importanza di essere comunità. Come possiamo provare che sappiamo amare Dio se non riusciamo ad amarci tra noi? Gesù si incontra nei fratelli, soprattutto se sono bisognosi o sofferenti.
Gesù smaschera l’ipocrisia.
Dopo essere stati messi alle strette da Gesù con le parabole dei due figli, dei vignaioli assassini e del banchetto nuziale, i farisei passano al contrattacco e cercano di coglierlo in fallo. La loro malafede è evidente perché non provano a mettere a confronto le idee, la dottrina, ma gli tendono un tranello politico in modo da sbarazzarsene senza mettersi in discussione. I farisei volevano la restaurazione del regno di Israele e pensavano che il Messia at-teso dovesse venire per compiere questa missione. Per questo ai loro occhi una sommossa fomentata dagli uomini per cacciare i romani, sarebbe stata una mancanza di fede, perché Dio stesso avrebbe dovuto provvedere. Evidentemente Gesù non poteva es-sere il loro messia, dato che annunciava l’avvento del Regno dei cieli e non di quello terreno. I farisei dunque vanno dal Maestro insieme agli erodiani, i quali erano fedeli a Roma, cercando di fargli dire qualcosa di compromettente contro l’imperatore. Spe-ravano così di metterlo nelle mani degli erodiani per liberarsi di lui. Cominciano a tessere la loro ragnatela dicendogli che lui è veritiero e imparziale. Sembrano complimenti, ma in realtà vo-gliono indurlo a compromettersi. La domanda che pongono è questa: dato che i romani sono usurpatori, perché dobbiamo pa-gar loro le tasse? Gesù non si lascia incantare dai modi cerimo-niosi e vede subito la trappola. Se avesse detto di sì poteva essere accusato di incoerenza o di sfiducia in Dio, se avesse detto no sarebbe divenuto preda degli erodiani. Per smascherare la loro ipocrisia usa le armi che loro stessi gli hanno messo in mano. Si fa consegnare una moneta, su cui era effigiato l’imperatore divi-nizzato, e gliela mette sotto il naso costringendoli a guardarla. I farisei avevano orrore delle immagini idolatriche e quella che ora dovevano osservare era proprio di un idolo pagano. Il fine non giustifica i mezzi. Se loro avessero avuto davvero fede in Dio, non avrebbero dovuto ricorrere a un inganno. Gesù li costringe a guardare in faccia il compromesso col male cui si sono piegati. Non sono stati ipocriti solo nei suoi confronti, ma anche nei con-fronti della fede. La risposta meravigliosa che dà loro li mette in scacco definitivamente. Politica e religione sono ambiti diversi. Un buon politico deve ispirarsi ai principi religiosi, ma non sfrut-tare gli stessi principi per far passare come verità delle idee di-scutibili. Una fede autentica non fa compromessi. Questo vale anche per noi. Non si può essere cristiani solo fino a che la poli-tica o il nostro comodo ce lo consentono. Il Regno dei cieli è per sempre, il regno degli uomini è destinato a finire.
Noi siamo nulla in confronto all’universo, rendiamocene conto e non pretendiamo di essere serviti, ma di servire.
Gli apostoli esortano il Signore ad aumentare le loro fede. Questo è il punto di partenza che non va perso di vista per capire la risposta di Gesù. La prima parte sottolinea che alla fede nulla è impossibile, nemmeno il voler qualcosa di strano come trapiantare un albero in mare. Non deve nem- meno essere un grande fede, ma piccola come un semino. Possibile che gli apostoli non avessero fede? Il vangelo ci dice che in effetti è così visto che alla fine abbandonarono tutti Gesù al suo arresto e addirittura tra loro c’era un tra- ditore. I dodici hanno vissuto col Maestro per tre anni ed erano tiepidi, figuriamoci noi! Diventa allora fondamentale la seconda parte del discorso del Signore, che sembra fuori dal contesto, per capire cosa significhi aver fede. Un servo, a quei tempi, era proprietà del padrone e veniva mantenuto in forza del lavoro svolto, come si fa con gli animali che si allevano in funzione della loro utilità. Il contadino non paga la mucca per il suo latte, ma al contrario ritiene quel latte come suo visto che le ha dato stalla e foraggio. Allo stesso modo il padrone non si sente obbligato verso il servo. Ora, noi siamo i servi e il Signore è il padrone. Quello che limita la nostra fede è che noi vorremmo che fosse il padrone a rimboccarsi la veste per servire noi, come se il poco che facciamo fosse un merito. La nostra preghiera è quasi sem- pre un domandare, vorremmo che la nostra volontà fosse sempre esaudita, ma difficilmente ci chiediamo che cosa Lui voglia da noi. Gesù ci ha insegnato a chiedere che sia fatta la tua volontà. Allora avere fede implica accettare que- sta volontà, non però come un terribile sacrificio, ma con la certezza che il Signore vede più lontano di noi e sa quello che va meglio per noi. Pretendere ed essere convinto di avere dei crediti nei confronti di Dio, è un atteggiamento che crea come uno schermo alla Grazia e fa essere sordi e ciechi nei suoi confronti. Siamo servi inutili perché siamo al mondo da pochi decenni e pretendiamo di spiegare al Dio eterno, che ha fatto l’universo intero, che cosa deve fare e perché deve farlo. Senza umiltà non si può aver fede. I santi fanno i miracoli perché hanno annullato la loro vo- lontà e vogliono solo quello che Dio vuole. Questa totale apertura e disponibilità è la via che apre il cuore alla fede. Siamo invitati a cambiare modo di pregare: invece di par- lare, ascoltare; invece di chiedere, accettare con fiducia; invece di lamentarsi, lodare e ringraziare.
Il Signore non è un giudice che ci aspetta al varco, ma un Padre che accoglie.
Leggendo le pagine del vangelo che ci sono state proposte nelle ultime domeniche, in cui Gesù si è mostrato molto severo, si potrebbe credere che la salvezza sia una meta quasi irraggiungibile. La pagina di oggi ci svela, al contrario, il volto della misericordia di Dio. Il Pastore non si accontenta di avere salvato le novantanove pecore del suo gregge, vuole anche la centesima. L’iconografia cristiana ha fatto di questa immagine del Pastore con la pecora in collo l’icona della misericordia, della sollecitudine del Signore che non si dà pace finché non siamo tutti al sicuro. La parabola infatti dice che alla fine tutto il gregge è salvo, non solo una parte. È davvero confortante e ci fa ben sperare perché significa che tutti, anche quei malvagi che il giudizio unanime vuole all’inferno, sono oggetto della premura del Padre. Lo evidenzia anche di più la seconda parabola, che paragona Dio a una scrupolosissima massaia che spazza con grande cura la sua casa fino a trovare la moneta perduta. Il peccatore non è dunque un rifiuto agli occhi del Signore, ma qualcosa di prezioso, ecco perché gli angeli fanno festa. Non dobbiamo allora commettere lo sbaglio dei farisei, che invece condannano senza appello. C’è anche un altro aspetto da considerare: il Pastore lascia le novantanove per cercare la dispersa. Sembra un invito rivolto ai pastori, a non accontentarsi di chi già possono raggiungere, ma a prodigarsi per chi è lontano. La parrocchia deve avere una dimensione missionaria, per avvicinare tutti. Questo naturalmente è un impegno del parroco, ma deve esserlo di tutta la comunità. Dobbiamo sentire questa urgenza di andare incontro a tutti e di inventare sempre nuovi modi di incontrare le persone. È un impegno che riguarda la Chiesa nel suo insieme e infatti lo Spirito Santo lavora per questo incessantemente. La Chiesa è come una rete, ci sono le par- rocchie che assicurano la presenza sul territorio dell’amministrazione dei sacramenti e della cura pastorale. Accanto a questa organizzazione operano gli ordini religiosi, che si dedicano ai più svariati ambiti dell’apostolato, occupandosi materialmente e spiritualmente dell’uomo in ogni fase della sua esistenza. Infine i movimenti ecclesiali compiono un prezioso lavoro, all’interno e fuori delle parrocchie, aggregando i fedeli nei modi più diversi. Tutto questo esprime l’infinita fantasia dello Spirito Santo che suscita sempre nuove occasioni e vocazioni per avvicinare tutti gli uomini. Lo Spirito agisce come la donna della parabola, cercando con ogni cura tutte le anime, non solo quelle dei giusti.