Esodo

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In generale, il tema più significativo dell’Esodo è la potenza di Dio: le nazioni, i popoli, il mare, gli elementi della natura, il deserto, tutto è sotto il suo dominio. Il secondo tema è la benevolenza di Dio. Egli ha cura del suo popolo, ascolta le sue grida e lo soccorre.

Il terzo è il mistero del male. Il male è presente sia in Egitto che tra il popolo di Israele, ma in ogni caso la volontà di Dio ha il suo corso.

C’è un elemento di mistero anche nel rapporto tra l’azione umana e l’intervento divino. Il Faraone ha il cuore di pietra nei confronti di Dio, ma non ne blocca l’azione.

Infine, si deve notare il valore dell’esistenza umana come parte del piano di Dio. Egli provvede a tutte le nostre necessità offrendoci la sua assistenza divina sotto forma di principi direttivi o leggi (il Decalogo). Queste leggi abbracciano ogni aspetto della nostra esistenza, dimostrando che Dio si interessa di tutto ciò che facciamo e di ciò che siamo.

 

Schiavitù in Egitto e invio del liberatore  (1,1 – 11,10)

Dio fece del popolo eletto l’oggetto esclusivo della sua sollecitudine perché lo ha amato ed è rimasto fedele a questo amore (Dt 7, 6-9).

Quando le condizioni sono cambiate e Israele si è trovato crudelmente oppresso, Dio sente le grida del suo popolo e manda un capo, Mosè, con l’incarico di attuare la sua volontà di liberazione.

Dio operò una serie di miracoli per smuovere il Faraone dalla sua ostinazione, ottenendo alla fine la liberazione di Israele e il passaggio, ugualmente miracoloso, del mare prosciugato per l’occasione.

Mosè si rivela servo fedele e amico di Dio. Si lascia docilmente guidare da Dio attraverso i fatti della vita e esprime costantemente una sensibilità, una attenzione che lo rende strumento efficace della volontà liberatrice di Dio.

Non dà alcuna importanza ai suoi privilegi di essere benvoluto dal Faraone, di aver ottenuto una posizione di prestigio, ma lascia tutto, profondamente scosso nell’animo dalla condizione di sofferenza a cui erano costretti i suoi fratelli Ebrei.

L’incontro con Dio nel segno del “roveto ardente” lo trova sufficientemente pronto ad accogliere il messaggio, l’incarico che riceve.

L’umiltà che lo porta a essere perplesso di fronte alla difficoltà della sua missione (4,10-13) lo mette nella condizione di portare avanti l’incarico confidando totalmente in Dio; solo così può affrontare l’opposizione del Faraone, non solo, ma anche la sfiducia del popolo nei suoi confronti.

Anche se la fede di Mosè ha avuto qualche momento di debolezza, tuttavia Dio lo definisce il più fedele dei suoi servi e lo tratta con amicizia (33,11).

L’azione liberatrice di Dio nei confronti del suo popolo è un segno forte dell’amore divino, amore che si rivelerà in tanti altri momenti successivi.

Riguardo al cuore indurito del Faraone, desidero precisare quanto segue:

l’autore qualche volta presenta questa situazione di opposizione come conseguenza della volontà di Dio: “… ma io indurirò il suo cuore ed egli non lascerà partire il suo popolo” (4, 21; 7, 3; 10, 27).

Questo modo di esprimersi è invece soltanto uno “stile” di espressione: non è assolutamente Dio che “fa” agire così, ma veniva soltanto manifestata una constatazione di realtà.

Per comprendere meglio, cito un passo di Isaia al cap. 6:

“Va e riferisci a questo popolo: Ascoltate pure, ma senza comprendere, osservate pure, ma senza conoscere. Rendi insensibile il cuore di questo popolo, fallo duro d’orecchio e acceca i suoi occhi, e non veda con gli occhi nè oda con gli orecchi nè comprenda con il cuore nè si converta in modo da essere guarito” (Is 6, 9-10).

Il fatto è questo: la predicazione del profeta urterà nell’incomprensione dei suoi uditori. Ma gli imperativi usati qui non devono illudere, perché equivalgono a indicativi (cf. 29,9): Dio “non vuole” questa incomprensione, Egli “la prevede” ed essa serve ai suoi disegni.

Essa infatti svela il peccato del cuore e fa scaturire il giudizio. Questi versetti di Isaia ci permettono di comprendere meglio l’indurimento del Faraone (Es 4,21; 7,3).

Questo stesso testo di Isaia sarà citato più volte nel Nuovo Testamento: Mt 13, 14-15; Gv 12, 40; At 28, 26-27, con una applicazione speciale alle parabole (Mt 13, 13).

La ragione di questo linguaggio è questa: l’indurimento volontario e colpevole ostacola e blocca l’azione della grazia.

A queste persone che non collaborano Gesù potrà dare solo una luce velata dai simboli, che tuttavia costituisce ancora una grazia e un invito a chiedere meglio e a ricevere di più.

Nonostante tutto, finchè c’è vita, la proposta di accogliere l’offerta di salvezza rimane, proprio perché Dio è Amore e “non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva!” (cf. Ez 33, 11)

La pasqua e l’uscita (esodo) dall’Egitto.  (12.1- 14.31)

Il lungo brano sulla pasqua (12,1-13,16) include contributi da tutte e tre le grandi tradizioni, la fonte antica del Sud, quella del Nord e la fonte del clero di Gerusalemme.

La pasqua era una festa annuale di pastori nomadi. L’inizio del racconto antico (v 21), che la menziona senza spiegazione, suppone che essa fosse già conosciuta come la festa che Mosè domandava al faraone il permesso di celebrare (cf. 5,1ss).

L’uscita dall’Egitto ha avuto luogo al momento di questa festa.

Comincia a delinearsi concretamente la perenne redenzione del popolo di Israele: l’azione salvifica tramite la quale Dio ha strappato il suo popolo alla schiavitù d’Egitto, guidandolo poi con grandiosi portenti attraverso il Mar Rosso e con una lunga peregrinazione nel deserto sino alla terra promessa, costituisce preparazione e attesa della salvezza messianica.

L’intera vita dell’israelita è rimasta concentrata sulla “commemorazione” di quella prima e basilare opera salvifica, sia nella celebrazione annuale che nella perenne realizzazione della stessa nell’agire della vita quotidiana, nelle sue preghiere e nelle sue cerimonie sacrali.

I padri dovranno spiegarne il significato ai figli:

“E’ il sacrificio della Pasqua del Signore, il quale è passato oltre le case degli Israeliti in Egitto, quando colpì l’Egitto e salvò le nostre case” (Es 12,27; cf. Dt 6,4-25 e 11,19-22; il primo di questi passi venne in seguito inserito nella preghiera quotidiana dell’israelita).

Quale carica realistica rivestisse questa celebrazione per gli israeliti, ce lo dimostra bene un noto studioso:

“La parola “memoriale” nella letteratura rabbinica e specialmente liturgica dell’epoca, non significa in alcun modo un semplice ricordo del passato, ma una “realtà oggettiva” destinata a rendere perpetuamente presente, davanti a Dio, per Dio stesso, qualcosa o qualcuno”.  (cf. L. Bouyer).

Cristo si è servito di questo “memoriale”, per trasmettere ai suoi la propria azione salvifica, il Mistero Pasquale di morte e risurrezione, in tutta la sua pregnante realtà.

La pasqua giudaica preparava così la pasqua cristiana:

il Cristo, agnello di Dio, è immolato (la croce) e mangiato (la cena), nel quadro della pasqua giudaica (la settimana santa): e così apporta al mondo la salvezza.

Il rinnovamento mistico di questo atto di redenzione diventerà il centro della liturgia cristiana che si organizza intorno alla celebrazione dell’Eucaristia, sacrificio e convito.

Da 13,17 comincia propriamente l’esodo, il cammino del popolo di Dio nel deserto verso la terra promessa, guidato, accompagnato e sostenuto dal Signore con braccio potente.

La tradizione cristiana a sua volta vedrà nel cammino attraverso il deserto la figura del progresso della chiesa (o dell’anima fedele) verso l’eternità.

La determinazione dell’itinerario e la localizzazione delle tappe è estremamente difficile, anche se il v.17 puo’ sembrare una indicazione.

Si incontrano qui diverse manifestazioni della presenza divina: la colonna di nube e la colonna di fuoco; la nube oscura e la nube chiara; infine, associata alla nube la “gloria” di Dio (24,16ss).

Il racconto del miracolo del mare dà testimonianza di un fatto prodigioso. Non è possibile determinare il luogo esatto dove si è verificato, ma appare agli occhi dei testimoni come un intervento splendido di Dio in favore del suo popolo.

Successivamente il passaggio del Giordano (Gs 3-4) sarà richiamo e conferma di questo evento, rivelando che l’amore di Dio è perseverante e invincibile.

La tradizione cristiana ha considerato il passaggio del Mar Rosso come una figura del battesimo, passaggio dalla morte alla vita attraverso l’acqua, come salvezza spirituale in atto (1 Cor 10,1).

 

Conflitti e guida nel deserto.     ( 15,1 – 18,27 )

Il canto di vittoria che inaugura questa sezione è il più celebre dei “cantici” chela Liturgiadelle Ore prende a prestito dall’Antico Testamento (cf. Lodi del sabato della Prima Settimana). Esso tratta in tutta la sua ampiezza il tema della salvezza miracolosa che la potenza e la sollecitudine di Dio assicurano al suo popolo e racchiude l’insieme delle meraviglie dell’esodo.

Dopo il prodigioso passaggio del Mar Rosso il popolo di Israele inizia il cammino nel deserto e subito si presentano grandi difficoltà.

Così gli israeliti “mormorano” contro la sete (15,24; 17,3); contro la fame (16,2). Israele è già il popolo restio che respinge persino i benefici del suo Dio (cf. Sal 78 e 106), immagine dell’anima che resiste alle ispirazioni della grazia.

Questo periodo, vissuto per quarant’anni in una atmosfera meravigliosa di miracoli ininterrotti, caratterizzato da una presenza continua, tangibile, quasi fisica di Dio con il suo popolo, periodo in cui Dio sembra aver sospeso in favore del suo popolo le condizioni normali di vita, ha costituito da sempre una attrattiva irresistibile.

Questo tempo rappresenta un’immagine ideale delle relazioni di Israele con il suo Signore: più che di un luogo, il deserto dà l’idea di uno stato, stato interiore, disposizione religiosa in cui niente è di ostacolo alla presenza operante di Dio. Questa condizione, ai primordi dell’era cristiana, viene trasformata in sete di assoluto, in un rifiuto delle mezze misure, in una ricerca di Dio nella purezza integrale della fede (cf. Elia e Giovanni Battista).

La perseverante bontà di Dio si rivela senza interruzione: dopo aver costretto il faraone a lasciare partire il popolo eletto è lui che stabilisce l’itinerario; è lui che precede il popolo nel viaggio segnando la strada con una colonna di fuoco.

La bontà di Dio appare anche nella figura di Mosè, che viene costituito guida e interlocutore privilegiato con il Signore.

Israele non fu all’altezza della sua vocazione.

Certamente non si può negare che le vita del deserto sia stata assai penosa e tribolata, anche sul semplice piano naturale: si pensi a quell’indefinito senso di incertezza, di precarietà, di pericolo, caratteristico della vita nomade tra solitudini impervie e desolate.

Dinanzi a tali prove gli israeliti, appena spento l’eco del canto trionfale per la liberazione (15,1-18), incominciarono a lamentarsi e a mormorare contro Dio e il suo fedele inviato (14,11; 16,2ss). E tale peccato accompagnerà il popolo per quasi tutto il quarantennio di permanenza nel deserto. Ma questa, senza illusioni è la realtà dell’uomo.

Le difficoltà del cammino (fame, sete, nemici) servono a ricordare che la salvezza non si raggiunge standosene passivi, ma che essa comporta sempre un aspetto drammatico: la prova approfondisce la fede, mentre rivela più manifestamente la gloria di Dio, “la sua grandezza, la sua mano potente, il suo braccio teso”.

La progressività della salvezza e il suo carattere drammatico saranno rivelati in modo ancora più netto nel Nuovo Testamento: la chiesa in cammino verso una salvezza ancora futura è la chiesa del deserto (cf. Ap 12).

 

Gesù, nostro deserto.

I “segni” del quarto Vangelo hanno questo di comune: sono tutti destinati a operare un approfondimento di significato: Giovanni riprende varie volte i temi dell’Esodo e li spiritualizza.

L’azione provvidente di Dio si è rivelata nel seno delle grandi prove del deserto che sono la sete, la fame, le tenebre, la minaccia costante della morte. A dire il vero questi vari pericoli non sono affatto considerati sotto il loro aspetto di fenomeni naturali, ma come elementi costitutivi del dramma dell’esodo e visti, quindi, come una dimensione della storia della salvezza.

Nella loro sete gli ebrei hanno invocato il Signore, “Fu data loro acqua da una rupe scoscesa, rimedio contro la sete da una dura roccia” (Sap 11,4).

Attraverso questo segno Israele ha riconosciuto la mano del Signore (Sap 11,14). A ciò corrisponde nella tradizione giovannea il segno di Cana: Gesù cambia l’acqua in vino. In tal modo egli “manifesta la sua gloria e i discepoli credono in lui” (Gv 2,1-11).

Successivamente nell’episodio dell’incontro di Gesù con la donna samaritana, il Salvatore si rivela come la “sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna” (Gv 4,14).

Nel deserto Dio ha donato al suo popolo “un cibo degli angeli, dal cielo un pane già pronto senza fatica” (Sap 16,20): nel Vangelo di Giovanni Gesù si dice il “pane vivo disceso dal cielo” (Gv 6,51).

La notte della partenza dall’Egitto Dio assicura ai suoi la presenza di una colonna risplendente che servirà loro da guida (Sap 18,1-3): Gesù nell’episodio del cieco nato appare come “la luce del mondo” (Gv 8,12; cf. 9,9; 1,4; 12,36).

In 1 Cor 10,5ss San Paolo a sua volta fa un chiaro riferimento all’esodo: traversata del mare e manna sono figura del battesimo e dell’eucaristia.

I sacramenti vanno ricevuti nella fede: morire a se stessi al fine di vivere per il Signore. La comunione con Cristo richiede la nostra collaborazione, il nostro “cercare” con sincerità ma è essenzialmente “Dio che si dona all’anima che si apre alla sua Presenza”.

“Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2.20).

Nel Nuovo Testamento Cristo prende il posto del deserto: luogo dove Dio si rende presente (Gv 14,7), passaggio obbligato per entrare nella gloria (14,6), nutrimento e forza lungo l’itinerario che porta alla meta: Cristo “via, verità e vita” (Gv 14,6).

Il deserto non è la fuga dalla tentazione perché in quel luogo inospitale si è più tentati che altrove. Mentre le folle e satana cercano di far coincidere Dio con il volere dell’uomo, Gesù vuole che il deserto rimanga il simbolo dello spazio infinito che separa Dio e l’uomo peccatore.

Tale distanza viene superata solo attraverso il lento cammino della fede.

Leggi di Dio, date e accolte     (19,1 – 34,35)

Questa grande sezione ha come fonte soprattutto il clero di Gerusalemme la fonte sacerdotale.

L’alleanza con Abramo, che aveva confermato le antiche promesse, era stata conclusa con un solo individuo, sebbene raggiungesse la sua discendenza, e non comportava che una sola prescrizione, quella della circoncisione.

Ora, l’alleanza del Sinai impegna tutto il popolo, che riceve una legge: il decalogo e il codice dell’alleanza.

Questa legge resterà come un’istruzione e un obbligo, preparando le anime alla venuta di Cristo, il quale sigillerà la nuova definitiva alleanza.

Ma intanto l’alleanza del Sinai farà di Israele il bene personale e sacro di Dio (Ger 2,3), un popolo consacrato (Dt 7,6; 26,19) o santo (Lv 19,2; cf. 11,44ss; 20,7.26), un popolo di sacerdoti anche (cf. Is 61,6), poiché il sacro ha un rapporto immediato con il culto.

La promessa troverà la piena realizzazione nella Chiesa, dove i fedeli saranno chiamati “santi” (At 9,13ss) e, uniti al Cristo-sacerdote, offriranno a Dio un sacrificio di lode (1 Pt2,5-9; Ap 1,6; 20,6).

Il decalogo trae la sua denominazione dalla tradizione patristica e il termine appare per la prima volta in Ireneo, mentre nella Bibbia porta il nome di “le Dieci Parole” di Dio (Es 34,28; Dt 4,13; 10,4), costituenti la base dell’alleanza.

Il numero, più che altro, ha una funzione pedagogica, potendosi numerare i comandamenti sulle dita delle mani.

Il testo in Esodo 20,2-17 haun passo parallelo in Dt 5,5-21.

Il decalogo copre tutto il campo della vita religiosa e morale: è il cuore della legge mosaica e conserva il suo valore nella nuova legge.

Cristo ne richiama i comandi ai quali si aggiungono, come il sigillo della perfezione, i consigli evangelici (Mc 10,7-21).

Dio esige da Israele un culto esclusivo: è la condizione dell’alleanza.

Il “codice dell’alleanza” (20,22-23,33) si riferisce al decalogo ma non è stato promulgato sul Sinai: e’ stato elaborato successivamente.

Una parola riguardo alla “legge del taglione” (di cui si parla al versetto 21,24; cf. Lv 24,17-20; Dt 19,21) che è legge di natura sociale, non individuale: imponendo un castigo uguale al danno causato, essa tende a limitare gli eccessi della vendetta (cf. Gn 4,23-24).

Con il passare del tempo la legge rimane in uso, ma sotto forme addolcite (Sir 27,25-29; Sap 11,16ss; cf. 12,22).

Il perdono era prescritto all’interno del popolo israelita (Lv 19,17-18; Sir 10,6; 27,30-28,7). Cristo metterà poi in evidenza il “comando” di perdonare (Mt 5,38-39ss; 18,21-22ss).

Nel Nuovo Testamento non ci riferisce mai alla totalità del decalogo, e ci si rapporta con una certa libertà interpretativa.

La citazione più importante di Paolo è Rm 13,9-10, incui egli afferma che l’amore del prossimo costituisce il pieno compimento della legge e il suo compendio.

Nella tradizione evangelica accolta da Marco, Matteo e Luca, appare rilevante anzitutto il racconto del ricco (Mc 10,17ss) che Gesù, interpellato sui requisiti necessari per entrare nella vita eterna, rimanda all’osservanza dei comandamenti che enumera così:

“Non uccidere – Non commettere adulterio – Non rubare – Non testimoniare il falso – Non frodare – Onora il padre e la madre”.

Il decalogo è necessario, ma non bastante per quella “perfezione” che Gesù chiede ai suoi discepoli (Mt 19,21; cf. 5,48).

Di grande rilievo è ancora la citazione di alcuni comandamenti del decalogo nelle antitesi del discorso della montagna:

“Avete ascoltato che fu detto da Dio agli antichi: non ucciderai ! E chi dovesse uccidere sarà sottoposto al giudizio;

…ma io vi dico: chiunque si adira contro il proprio fratello sarà sottoposto al giudizio” (Mt 5,21-22).

“Avete ascoltato che fu detto da Dio: non commetterai adulterio !

…ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore” (Mt 5,27-28).

L’insegnamento di Cristo rappresenta dunque un superamento dei limiti della “lettera” dei comandamenti; egli infatti proibisce la collera al pari dell’omicidio, equiparando quella a questo; e secondo la sua valutazione l’adulterio consumato all’interno dell’uomo, nel suo cuore, equivale per gravità a quello consumato nella carne.

Con il passare del tempo la legge di Dio conserva una validità perenne, ma va interpretata correttamente attualizzandola nel tempo che si vive, e questo fa il Magistero della Chiesa.

Il valore del decalogo va assunto e rispettato da persone di oggi, considerando che il problema del bene e del male, visto nelle scelte concrete e quotidiane, appare in termini molto più complessi che non nel passato.

Così le esigenze etiche del decalogo, per es. “Non uccidere !”, “Non commettere adulterio!”, “Non rubare !” richiedono un complesso lavorio di applicazioni a situazioni diverse e cangianti.

La Paroladi Dio esige di essere proclamata, sempre di nuovo, in parole umane capaci di esprimere la verità profonda che contiene e di essere comprese dall’uomo in ascolto.

Un compito arduo, certo, che sollecita la creatività nello Spirito delle comunità cristiane e la duttilità culturale di tutti i credenti, ma proprio in questo prezioso processo che non avrà mai fine, consiste la vita della Chiesa nel tempo.

 

… riguardo alla “nube”.

Come la notte o l’oscurità, la nube può essere espressione di due diverse esperienze religiose: la benefica vicinanza di Dio o la privazione della sua Presenza esprimendo lontananza.

Si tratta in ogni caso di una presenza misteriosa: Dio si manifesta sottraendosi completamente alla vista.

I due aspetti contrapposti li troviamo in Es 14,20: “La nube era tenebrosa per gli uni, mentre per gli altri illuminava la notte”, questo per favorire il cammino di Israele e per ritardare invece l’inseguimento degli Egiziani.

 

La nube e “la gloria di Dio”.

Dio ha parlato sul Monte Sinai; una nube ha coperto la montagna per sei giorni quando Dio si rese presente nel fuoco (Es 19,16ss) come all’interno della nube che diventa come un velo che protegge dagli sguardi impuri la gloria di Dio.

Accessibile e impenetrabile nello stesso tempo, la nube permette di entrare in contatto con Dio senza poter osservare il suo volto (Es 33,20).

E’ dalla nube che Dio chiama Mosè che solo si può avvicinare (24,14-18).

La nube è segno, manifestazione della gloria di Dio (16,10; cf. 40,34-38).

Molto tempo dopo, quando Re Salomone consacra il nuovo tempio di Gerusalemme, la gloria del Signore, la nube, riempie completamente il luogo sacro (1 Re 8,10ss; cf. Is 6,4ss).

 

Cristo e il segno della nube.

Prima della sua venuta definitiva sulle nubi del cielo (Dn 7,13-14), il Figlio dell’Uomo è concepito dalla Vergine Maria; su di lei scenderà lo Spirito e la potenza dell’Altissimo stenderà la sua “ombra” (Lc 1,35), come “nube mistica”.

Quando Gesù si trasfigura sul monte Tabor, la nube luminosa rivela la presenza del Padre e la gloria del Figlio (Mt 17,1-8), che scompare dallo sguardo dei discepoli (cf. Ap 14,14).

Nel momento della Trasfigurazione la nube non copre solo Gesù ma anche gli apostoli (Lc 9,34); essa unisce cielo e terra.

Trovandosi all’interno della nube, gli apostoli comprendono che sono uniti a Gesù e sono in grado di ascoltare la voce del Padre.

La vera nube è lo Spirito Santo che rivela (Gv 14,26) e guida (16,13).

Il velo che, come la nube, copriva il volto di Mosè che sprigiona una gloria temporanea, sarà rimosso per i fedeli che si aprono alla presenza dello Spirito (2 Cor 3, 12-18).

 

Riguardo al “vitello d’oro” e all’idolatria in generale.

La storia del popolo di Dio è sistematicamente un cammino che cerca di prendere le distanze, di voltare le spalle agli idoli, alla tentazione di imitare il comportamento dei popoli limitrofi che adoravano le divinità pagane, per rimanere fedeli all’unico Dio.

Israele impara dal Decalogo a non costruirsi immagini (Es 20,3ss; Dt 5,7ss), perché solo l’uomo è l’autentica immagine di Dio (Gen 1,26ss).

Così il vitello d’oro che il popolo costruisce come simbolo del potere divino (Es 32) provocherà l’ira di Dio: Dio abbandona coloro che abbandonano Lui, permettendo anche “provvidenzialmente” calamità che hanno lo scopo di far rinsavire.

Da sempre esiste per l’uomo il pericolo dell’idolatria, e quindi anche ai nostri giorni: di mettere cioè al posto di Dio interessi umani, successo e potere.

Così il popolo dei credenti deve costantemente fronteggiare la tentazione di adorare “l’immagine della bestia” (Ap 13,14; 16,2).

Pertanto l’idolatria non è mai definitivamente vinta.

Quando una persona cessa di servire il Signore con sincerità e con amore, diventa schiava di realtà terrene: il denaro (Mt 6,24), il desiderio di potere e di dominio (Col 3,5), il piacere, l’invidia e l’odio (Rm 6,19; Tt 3,3), il peccato (Rm 6,6), fino all’osservanza solo formale ed esteriore della Legge (Gal 4,8ss).

Tutto questo conduce alla morte (Fil 3,19), mentre il frutto della fedeltà allo Spirito èla Vita(Rm 6,21ss).

 

Presenza di Dio nel Tabernacolo  (35,1 – 40,38)

Questa sezione menziona l’esecuzione degli ordini dati nei capitoli 25-31, di cui è una ripetizione quasi letterale.

La Leggeè strettamente collegata all’alleanza. Israele deve obbedire alla voce di Dio e custodire i suoi comandi per poter diventare un popolo saggio (Dt 4,5-8) e per realizzare la volontà del suo Signore.

Le Dieci Parole (Es 20,1-7) e il Codice dell’Alleanza (Es 20,22-23,33) vengono attentamente riflettuti e ampliati, con l’aggiunta di tutta una serie di norme particolari, da parte della redazione Deuteronomista (Dt 5,2-21; 12-28), che indica l’amore per Dio come il primo comandamento, al quale tutti le altre norme devono essere dirette (6,4-9).

 

L’Arca dell’Alleanza.

La presenza di Dio in mezzo al suo popolo si manifesta in diversi e svariati modi: l’Arca è uno di questi, un segno concreto, visibile.

L’arca è un cofano di legno che contiene le Tavole della Legge ricevute da Mosè; è come un santuario mobile che accompagna il cammino di Israele dalla partenza dal Monte Sinai, fino alla costruzione del Tempio di Gerusalemme, dove sarà custodita.

L’arca è, per tutto questo lungo periodo, segno della presenza di Dio che guida e protegge il suo popolo, per comunicare con lui e ascoltare le sue preghiere.

La presenza dell’arca ha sostenuto attivamente Israele durante le alterne fasi della conquista della terra promessa. Essa si rivela come il luogo della Parola di Dio perchè contiene la legge, le Dieci Parole di Dio.

Inoltre è presso l’arca che Mosè consulta Dio (Es 25,22) o prega in favore del popolo (Nm 14).

Mosè entra nella tenda e Dio parla con lui familiarmente (Es 33,7-11; 34,34; Nm 12,4-8).

Abbiamo riferimenti continui all’Arca dell’Alleanza nei libri successivi della Bibbia e in particolare negli scritti dei profeti (Ger 3,16-17; 31,31-34; Ez 9-11; 2 Mac 2,4-8; Ap 11,19).

Geremia, dopo il587 AC, invita il popolo a non rimpiangere la perdita dell’arca, scomparsa durante la caduta di Gerusalemme conquistata e distrutta dal  Re Nabucodonosor, perchèla Leggesarà scolpita nei loro cuori (31,31-34).

Dio continua ad essere presente nel “resto” di Israele, la comunità fedele (Ez 9-11). Rimane la speranza di poterla riavere alla fine dei tempi (2 Mac 2,4-8) e questo si realizza nella visione dell’Apocalisse (Ap 11,19).

Ma il Nuovo Testamento proclama che il segno dell’arca ha trovato il suo pieno compimento in Cristo, Parola di Dio che vive in mezzo al suo popolo (Gv 1,14; Col 2,9), operando per la salvezza (1 Tess 2,13), facendosi guida (Gv 8,12) e diventando il vero propiziatorio, la vittima di espiazione dei nostri peccati (Rm 3,25; cf. 1 Gv 2,2; 4,10).

L’arca scomparsa non fu più rifatta (Cf Ger 3,16).

Però tuttala Gerusalemmefutura sarà come “il trono di Dio” (Es 25,10ss; 2 Sam 6,7), presenza perenne di Dio in mezzo al suo popolo.

 

…… parliamo di “riposo”.

“Durante sei giorni si lavori, ma il settimo giorno vi sarà riposo assoluto, sacro al Signore… Gli israeliti osserveranno il sabato nelle loro generazioni come un’alleanza perenne. Esso è un segno perenne fra me e gli israeliti, perché il Signore in sei giorni ha fatto il cielo e la terra, ma nel settimo ha cessato e si è riposato” (Es 31, 15-17).

 

L’esistenza umana è contrassegnata da momenti alterni di agitazione e di calma, di lavoro e di riposo. Una vita vissuta in pienezza richiede necessariamente la coesistenza di aspetti contrapposti.

Così la tradizione biblica che esprime l’insieme degli aspetti della vita umana, ci accompagna verso la scoperta del significato di queste diverse realtà.

Ciò che per l’uomo è progresso o regresso, se sono visti come fasi diverse di un unico cammino, vengono purificati e trovano posto entrambi nell’armonia di Dio.

Il riposo autentico non è infatti passività, assenza di qualcosa, ma esprime il compimento della precedente attività. Così inquadrato, questo tipo di riposo, e’ già un anticipo di vita eterna.

 

1) RIPOSO E LAVORO….

Fin dalle origini, Israele ha codificato come legge la necessità di “santificare il sabato” (Es 20,8), per consacrare nell’arco della settimana un giorno di riposo dedicato al Signore.

Le ragioni sono le seguenti:

Riposo come simbolo di liberazione.

Il codice dell’alleanza precisa che animali e lavoratori dei campi devono poter riposare (23,12). Il motivo, oltre alle naturali esigenze, è questo: Israele deve far memoria della sua liberazione dal lavoro forzato in Egitto (Dt 5,15). E avere la possibilità di riposare è un segno di libertà.

 

Riposo come partecipazione al riposo del Creatore.

Secondo la fonte del clero di Gerusalemme, l’uomo che osserva il riposo del sabato imita Dio che, dopo aver creato cielo e terra, si è fermato e ha riposato nel settimo giorno.

Il rispetto del riposo sabbatico unisce Dio e i suoi fedeli (Es 31,7; Gn 2,2ss). Se il sabato è santo, è perché Dio lo rende santo (cf. Ez 20,12).

Riposare è esprimere l’interiore immagine di Dio; perchè ogni uomo non è soltanto libero, ma figlio di Dio.

 

Riposo e celebrazione.

Il rispetto del sabato non consiste solo nel non lavorare, ma nel dedicare le proprie energie a lodare con gioia il nostro Creatore e Redentore. Da questo scaturisce la gioia piena (cf. Is 58,13ss).

Santificare il sabato permette di accedere al mistero di Dio; ma tutto questo sarà portato a compimento nella Domenica, giorno della Risurrezione di Cristo, giorno del Signore.

 

2) VERSO IL RIPOSO DIVINO.

Israele a poco a poco riconosce che Dio concede “riposo” al suo popolo dopo le devastanti provvidenziali esperienze di peregrinazioni, guerre ed esili.

 

La terra promessa, simbolo del riposo divino.

Con l’uscita dall’Egitto, il popolo ebreo lascia la schiavitù per incamminarsi verso la terra della libertà. Questa forte speranza, come un sogno, sarà il progressivo, costante concretizzarsi di una conquista lenta (Gd 1,19-21; Gs 21,43ss), fino al momento in cui Re Davide sperimenterà “riposo” dai suoi nemici (2 Sam 7,1).

Salomone può proclamare nel momento della dedicazione del tempio: “Benedetto Dio che ha concesso pace al suo popolo secondo le sue promesse” (1 Re 8,56).

In quei giorni Dio concede pace e tranquillità (1 Cr 22,9). L’uomo può “vivere in pace all’ombra della vigna e del fico” (1 Re 4,20; 5,5). Si tratta di un riposo terreno, umano, ma garantito da Dio che ha deciso di “riposare” nel suo tempio (Salmo 132,14).

Dio guarda coloro che guardano a Lui e concede riposo (2 Cr 14,6). Pertanto la condizione e la durata del riposo su questa terra è collegata al rispetto della fedeltà all’Alleanza, esprimendo sempre un aspetto interiore.

Così il riposo viene meno rapidamente, a causa di infedeltà e ribellioni contro Dio (Dt 32,15; Neem 9,25-28).

Il progresso della salvezza ha infatti bisogno di una atmosfera di tranquilla conversione (Is 30,15), ma dopo le tribolazioni conseguenti alle ribellioni il popolo capirà meglio che Dio le permette perché essi rinsaviscano (Ger 30,10ss).

Così Israele riprende ancora una volta il suo cammino verso il riposo (31,2), sperimentando pace e abbondanza di benedizioni divine (31,12ss).

Il “buon pastore” conduce le sue pecore a ricchi pascoli (Ez 34,12-16;  Is 40,10ss). In questa prospettiva Dio, origine di ogni bene, indica la via verso la terra promessa e Israele è in marcia verso il divino riposo.

 

Anticipo del riposo definitivo.

Periodi generalmente brevi di pace vengono sperimentati da Israele, intercalati con persecuzioni (Salmo 55,8), prove (66,12), esperienze di annientamento (39,14).

Giobbe grida al Signore che non gli permette di prendere fiato (Gb 9,18).

Ma tutto cambia quando la luce della risurrezione squarcia le tenebre della tomba (Dn 12,13) e per il credente il “riposo” della morte non è più la fine, ma un anticipo del divino riposo alla fine dei tempi.

 

    Gesù Cristo, il riposo delle anime.

Riposo e redenzione: contro la tradizione dei farisei, Gesù ristabilisce il vero significato del sabato: “Il sabato è per l’uomo, non l’uomo per il sabato” (Mc 2,27) e difende la vita (3,4): riposo deve significare liberazione dell’uomo e esaltazione della gloria del Creatore.

Gesù fa comprendere proprio questo, curando malati in giorno di sabato. Egli “libera” la donna “legata” da molti anni (Lc 13,16).

Così si rivela “signore del sabato” (Mt 12,8), perché lui realizza nella sua persona ciò che il sabato prefigura.

Per ottenerci questa liberazione e riposo Gesù ha accettato “di non avere dove posare il capo” (Mt 8,20), quel capo benedetto che non reclinerà fino al momento della sua morte in croce (Gv 19,30).

Rivelazione del riposo divino: per giustificare la sua attività di sabato, giorno di riposo, Gesù dice: “Il Padre mio non ha mai cessato di operare, e anch’io opero” (Gv 5,17). In Dio attività e riposo sono sempre presenti.La Sapienzaproclama questo mistero di riposare mentre si è attivi (Sir 24,11).

L’attività di Cristo e quella degli operai nella vigna vengono in aiuto a chi è stanco e affaticato (Mt 9,36; cf. Gv 4,36), perché Gesù offre riposo alle anime che a Lui si affidano (Mt 11,29).

Riposo eterno: il riposo divino nel quale gli ebrei confidavano entrando nella terra promessa, è riservato al popolo di Dio, a coloro che rimangono fedeli e obbedienti a Cristo. Questo è il commento al Salmo 95 da parte dell’autore della Lettera agli Ebrei (Eb 3,7 – 4,11).

Questo riposo eterno appartiene a coloro che muoiono nel Signore; essi possono cessare l’attività perché le loro buone opere li seguono (Ap 14,13). E il riposo eterno non interrompe il loro impegno, ma lo porta a compimento. Tutto ciò che in vita è stato fatto con buona volontà, fede e dedizione totale, si trasforma ora nell’adorazione senza fine di Dio, ripetendo notte e giorno, per sempre, le lodi del Signore (Ap 4,8).

 

 

… concludendo il libro dell’Esodo:

L’importanza storica e religiosa dell’Esodo è fondamentale:
Israele diventa il popolo testimone del Dio unico, dei suoi espliciti interventi nella storia della salvezza.
La liberazione dall’Egitto è il prototipo di tutti i futuri interventi salvifici del Signore (Is 35,8ss; 40,3; 43,19; 49,11; 11,16; 63,16) nelle epoche successive: Dio fa ancora scaturire acqua come a Meriba (Is 35,6ss; 41,18; 43,20; 44,3; 48,21) e il deserto viene trasformato in un giardino (Is 35,7; 41,19).
Purtroppo Israele offrì in compenso solo ingratitudine (Am 2,10; Mich 6,3ss; Ger 2,1-8; Dt 32; Sal 106).
Ma è nel Nuovo Testamento che trovano la massima espressione questi temi di salvezza.
Il passaggio di Israele attraverso il Mar Rosso prefigura il battesimo che introduce nel regno di Dio; l’alleanza del Sinai, sancita nel sangue delle vittime, prelude di lontano alla nuova alleanza dell’umanità nel sangue di Cristo.
La tradizione apostolica nell’individuare Giovanni il Battista “la voce che grida nel deserto..” (Mt 3,3; Is 40,3), afferma con forza che la redenzione portata da Cristo è il compimento del mistero di salvezza prefigurato dal primo Esodo.
Con questo stesso intendimento Gesù è il nuovo Mosè preannunciato in Dt 18,18 (cf. Atti 3,15-22; 5,31; 7,35ss).
Anche San Paolo considera questo stesso tema: Gesù è il vero Agnello immolato per noi (1 Cor 5,7) e le meraviglie dell’esodo erano figure della realtà spirituale che Cristo ha realizzato (1 Cor 10,1-6).
I misteri supremi della vita di Gesù si compirono nella cornice della Pasqua, senza dire che il Decalogo che Dio ha dato a Mosè, perfezionato da Cristo con la proclamazione delle Beatitudini nel Discorso della Montagna (Mt 5,1-12ss), resta per sempre valido per i credenti in Lui.

Cronologia di alcuni eventi dell’Esodo:
Il riferimento al Faraone Ramses II° (Es 1,11) porta ad attribuire l’uscita dall’Egitto intorno al 1250 A.C.
La ricostruzione di Pitom e Ramses ebbe luogo infatti nel XIII° secolo.
Israele è nominato come nazione sulla stele trionfale del Faraone Merneptah (1200 circa A.C.).