Il Vangelo

Documento (San Giovanni – Vangelo)

Gv 1,19-51: La settimana inaugurale, Natanaele, Filippo, e Gv 20,19-29: Tommaso.

L’evangelista Giovanni, dopo il prologo, organizza il suo racconto articolato nel tempo di una settimana che viene presentata come la “nuova Creazione”.
Giovanni Battista battezza, annuncia la presenza del Messia, e tutti questi avvenimenti sono cadenzati dallo scorrere del tempo… “Il giorno dopo… ( 1,29; 1,35; 1,43; 2,1 ) … “Tre giorni dopo”, che fanno esattamente sei giorni, più quello iniziale, sette.
Il richiamo è a Gen 1,1-2,15, la settimana in cui Dio creò il cielo, la terra e l’uomo.
In questa nuova settimana Gesù ri-crea l’umanità realizzando nuove possibilità di redenzione e di salvezza per tutti, chiedendo e ottenendo collaborazione dai suoi primi amici, i discepoli, tra i quali successivamente sceglierà gli Apostoli.
Il Vangelo di Giovanni si apre così con una settimana calcolata giorno per giorno, che termina con la manifestazione della gloria di Dio grazie al miracolo della trasformazione dell’acqua in vino alle nozze di Cana.
Bartolomeo è tra i primi discepoli che Gesù incontra e invita. Sarebbe lui il Natanaele dei Vangeli. Travolto dalle parole di quel Gesù di cui aveva detto: “Da Nazaret può mai venire qualcosa di buono?”, lo seguì. L’evidenza della verità è più forte di ogni pregiudizio.
Se ci mettessimo a sfogliare i Vangeli sinottici in cerca di notizie sull’apostolo Bartolomeo, troveremmo ben poco: il suo nome nell’elenco dei tre evangelisti segue sempre quello di Filippo; gli Atti degli Apostoli, invece, lo collegano a Matteo.
Secondo gli studiosi, Bartolomeo è quel Natanaele di Cana presentato dal Vangelo di Giovanni. Gesù ha iniziato il suo ministero, e torna in Galilea, seguito da Andrea, Pietro e dallo stesso Giovanni, già discepoli del Battista, incontrati a Betania. Puntano verso Cafarnao, dove faranno base nella casa di Pietro. Al gruppo si era aggiunto Filippo, anche lui di Betania. Ed è Filippo che vuole subito comunicare il suo stupore a Natanaele. Gli racconta di aver conosciuto “colui del quale hanno scritto Mosè nella Legge e i Profeti, Gesù, figlio di Giuseppe di Nazaret”. Ma Natanaele, che è di un temperamento simile a quello di Tommaso, e non crede se prima non ha toccato con mano, lo gela: “Da Nazaret può mai venire qualcosa di buono?”. Filippo non si arrende e gli chiede di vedere con i propri occhi.
Il diffidente Natanaele si fa convincere. Gesù, appena lo vede, ha una parola di simpatia per lui: “Ecco davvero un israelita in cui non c’è falsità”. Insomma, fa un elogio della sua franchezza. Ma quando gli sguardi si incontrano, la diffidenza si dilegua e lascia il posto allo stupore: “Come mi conosci?”. La risposta di Gesù: “Prima che Filippo ti chiamasse, io ti ho visto quando eri sotto il fico”.
In Palestina era tradizione diffusa piantare un albero di fico accanto alla casa, un luogo ideale per riposare protetti dall’ombra; in quei tempi i rabbini trovavano proprio lì quel silenzio che favoriva lo studio della Legge.
L’abate Giuseppe Ricciotti, autore della ben conosciuta Vita di Gesù Cristo, legge così quegli attimi di meraviglia: “La sorpresa dovette essere straordinaria spiritualmente, in quanto cioè i pensieri che Natanaele aveva in mente dovevano avere qualche relazione con l’imminente incontro. Pensava egli forse al vero Messia, avendo udito le strane voci che correvano in paese a proposito di Gesù appena giunto? Tuttavia è chiaro che Natanaele trovò perfettamente vera la parola rivoltagli: Gesù l’aveva veramente visto nell’interno dei suoi pensieri, più che nella situazione della sua persona”.
Natanaele è raggiunto dal cambiamento, Filippo aveva ragione, ed esclama: “Rabbì, tu sei il Figlio di Dio, tu sei il re d’Israele!”. Gesù replica: “Perchè ti ho detto che ti avevo visto sotto il fico, credi? Vedrai cose maggiori di queste!”. E ancora: “In verità, in verità vi dico: vedrete il cielo aperto e gli angeli di Dio salire e scendere sul Figlio dell’uomo” (Gv 2, 46-51).
Tre giorni dopo questo colloquio, Gesù è uno degli invitati alle nozze che si tenevano a Cana, in occasione delle quali fece il primo miracolo, e molto probabilmente è stato proprio il cananeo Natanaele a chiedergli di partecipare a quel matrimonio.
Giovanni nominerà di nuovo Natanaele soltanto alla fine del suo Vangelo. Gesù è morto e risorto, gli apostoli tornano in Galilea nell’attesa che il loro Maestro si mostri. Natanaele è uno dei sette discepoli che una sera escono a pescare. Verso l’alba a questo gruppetto appare il Signore, sulla riva del lago di Tiberiade, la terza apparizione dopo la Risurrezione.
L’altro discepolo che consideriamo, Tommaso, col suo voler toccare testimonia non scetticismo, ma serietà di fronte alla realtà.
Quando Giovanni nel suo Vangelo scrive che quello che sta scrivendo è “ciò che abbiamo visto e toccato”, aveva in mente anche lui: lui è Tommaso, quello che nel nome contiene una pista sulla sua origine: Tommaso in siriaco è l’equivalente del greco Didimo, cioè gemello. Del resto, un’antichissima tradizione attesta il culto dell’apostolo a Edessa di Siria.
Se i sinottici lo citano solo in occasione della presentazione dei dodici, Giovanni mostra molta più attenzione nei suoi confronti. Lo ricorda in sette circostanze precise. E tre di queste sono molto significative per definire il carattere di Tommaso. La prima (Gv 11,6) è relativa alla malattia di Lazzaro: Gesù decide di tornare in Giudea, a Betania, per trovare l’amico. Gli apostoli sono scettici, perchè sanno che in Giudea l’ostilità delle autorità verso di Lui è esplosa e c’è anche pericolo fisico per chi lo segue. Tutti tacciono, tranne Tommaso, che rivolgendosi ai suoi amici sbotta: “Allora andiamo anche noi a morire con lui!”. La franchezza non è dote che manchi certo a Tommaso. E anche il secondo episodio lo dimostra. L’Ultima Cena si sta per concludere; l’annuncio del prossimo tradimento è stato fatto, anche se non tutti lo hanno colto (quando Giuda lascia il Cenacolo, sottolinea Giovanni, “nessuno dei commensali capì”). Gesù cerca di tranquillizzare i suoi: “Io vado a prepararvi un posto… E del luogo dove io vado, voi conoscete la via”. Ma a Tommaso qualcosa non torna: “Signore, non sappiamo dove vai e come possiamo conoscere la via?”. E Gesù: “Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me” (Gv 14,1-6). La sola possibilità di salvezza sta in quest’ordine di precedenza invertito: nel conoscere la via prima di sapere dove si va, anzi nell’essere sulla via senza neanche saperlo.
Infine c’è l’episodio più celebre, quello che accade dopo la Resurrezione. Gesù si fa vivo a un gruppo di apostoli, ma fra loro non c’è Tommaso. Chi c’era, però, si premura di riferire subito all’assente quello che avevano visto. La reazione di Tommaso non è dettata da scetticismo. E’ la sua natura che lo porta a dubitare di tutto ciò che non ha visto con i suoi occhi e toccato con le sue mani. E’ una reazione immediata, un esito della sua franchezza: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi, e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò”. Tre richieste, precise, incalzanti, quasi impudenti. Ma a Gesù non fanno nessun problema: conoscendo nel profondo i suoi amici, ne capisce anche le debolezze o le pretese.
Così otto giorni dopo Gesù si fa di nuovo vivo tra i suoi. E appena vede che c’è anche Tommaso, lo chiama vicino a sè senza dimenticare nessuna delle sue richieste: “Metti qua il dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo, ma credente” (Gv 20, 24-28). Poi Gesù aggiunge quello che è sempre suonato come un rimprovero: “Perchè mi hai visto hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno”.
Caravaggio, raccontando questa scena in uno dei quadri più belli dell’intera storia della pittura, svela un particolare molto umano che fa capire come la condizione di Tommaso sia la condizione di tutti: per questo è così vera. Infatti, mentre l’apostolo mette brutalmente il dito nel costato, da dietro due altri apostoli guardano, con lo sguardo teso nella curiosità. Anche loro vogliono avere la certezza che quello che hanno davanti è Gesù in carne e ossa. E quello che Tommaso sta facendo lo sta facendo anche per loro. Hanno visto, hanno toccato, hanno creduto. Hanno esclamato: “Mio Signore e mio Dio!”.
Tommaso ritorna nelle pagine di Giovanni in occasione dell’apparizione di Gesù sul lago di Galilea: sono in sette che vanno a pescare, seguendo Pietro. E tra questi Giovanni dice che c’era pure Tommaso.
Questo tipo di persone sono molto preziose, perchè questo voler toccare, voler vedere… tutto questo dice la serietà con cui ci si confronta con la realtà, con la conoscenza della realtà. Certamente tanti hanno questa esigenza di concretezza; “ma se una volta potessero toccare Gesù da vicino – vedere il volto di Cristo – se una volta potranno toccare Gesù, se lo vedranno in voi, diranno: “Mio Signore e mio Dio!”. (Giovanni Paolo II, 24 marzo 1994).
E questo è un preciso richiamo a rendere più sincera e più credibile la nostra personale testimonianza.

 

La purificazione del tempio  (Gv 2).
Il brano della purificazione del tempio da parte di Gesù segue immediatamente il primo segno a Cana di Galilea (2, 1-12).
Ci sono alcune espressioni e frasi che si ripetono nelle due scene, e fanno pensare che l’autore abbia voluto creare un contrasto tra i due fatti. A Cana, un villaggio della Galilea, durante una festa di nozze, una donna ebrea, la madre di Gesù, dimostra una fiducia incondizionata nel Figlio e invita all’accoglienza della sua parola (2, 3-5). Dall’altra parte, i Giudei durante la celebrazione della Pasqua a Gerusalemme rifiutano di credere in Gesù e non accolgono la sua parola. A Cana Gesù fece il suo primo segno (2, 11): qui i Giudei chiedono un segno (v. 18) ma poi non accettano il segno dato loro da Gesù (2, 20).
Lo svolgimento della storia è semplice. Il v. 13 la inquadra in un contesto spaziale e temporale ben preciso e significativo: Gesù sale a Gerusalemme per la Pasqua. Il v. 14 introduce la scena che fa scattare una forte reazione da parte di Gesù. L’ azione di Gesù viene descritta nel v. 15 e motivata dallo stesso Gesù nel v. 16.
L’azione e la parola di Gesù suscitano due reazioni. La prima, quella dei discepoli, è di ammirazione (v. 17); la seconda, quella dei Giudei, è di dissenso totale (v. 18). Essi richiedono una spiegazione da parte di Gesù (v. 19) ma non sono aperti ad accoglierla (v. 20). A questo punto interviene il narratore per interpretare autenticamente la parola di Gesù (v. 21).
I Giudei non possono capire il significato vero della parola di Gesù. Però anche i discepoli, che lo ammirano come un profeta pieno di zelo per Dio, non la possono intendere ora; solo dopo il suo compimento crederanno alla parola di Gesù (v. 22). Infine il narratore ci offre un sommario sull’accoglienza entusiasta di Gesù da parte delle folle a Gerusalemme (vv. 23-25). Eppure questa fede basata solo sui segni non entusiasma Gesù.
Se diamo uno sguardo al passato, il tempio nella vita del popolo di Israele ha assunto un significato sempre più pregnante come segno della presenza di Dio, della sua abitazione in mezzo al suo popolo, tanto che il pellegrinaggio a Gerusalemme e al tempio viene chiamato il santo viaggio. Poco alla volta, con l’intervento dei Profeti, si purifica l’idea del tempio solo di pietre, ed assurge ad un significato più spirituale e di religione del cuore.
Gesù porta a compimento tutto questo e sarà lui Risorto il nuovo tempio. Con il battesimo ciascuno di noi diventa il tempio di Dio, la sua abitazione preferita.
Esaminiamo alcuni dettagli:
“Si mise a cacciare quelli che vendevano”: E’ la purificazione cioè religione non come commercio santo, ma come scoperta del suo amore gratuito e quindi come risposta di amore, nella libertà dell’amore. Il vero adoratore secondo il cuore del Padre (cf. Gv 4,21-24), è colui che si apre a Gesù, ed ha in sè i suoi stessi sentimenti. La vita diventa un dialogo continuo con la sua dolce Presenza, un riferirsi a Lui nella sua quotidianità.  Volgarità, tiepidezze, avarizie, orgoglio, sensualità … inquinano il cuore che deve essere guarito dal Signore. Bisogna chiedere la purificazione del cuore, e il signore la opererà in chi la cerca.
“E non permetteva che si portassero cose attraverso il tempio”: E’ la nostra vita attraversata dal male. E’ il nostro aderire al male. Quanta ipocrisia e menzogna! C’è veramente bisogno di questa decisione per lasciarsi purificare.
“La mia casa si chiama casa di preghiera”:  Ecco chi siamo! Una casa di preghiera! Scopriamolo veramente e gioiamo di tanto dono. Non lasciamoci inquinare e non spegniamo la luce della testimonianza che i nostri fratelli attendono.
“Il popolo era ammirato”:  Gesù accolto nella vita suscita ammirazione, stupore, novità, gioia.  Tutto questo avviene nella nostra vita? Non è qualcosa dall’esterno, ma scaturisce dal profondo di noi stessi, come sorgente di acqua viva. La ordinarietà della vita può essere affrontata con spirito nuovo e significato diverso, che le dà colore e novità. Il vecchio tempio senza Gesù è nel buio, è sera. La vita senza Dio è difficile. Si può riempire la vita di luci false, ma durano poco, e gli effetti non sono di gioia, ma di vuoto. Oggi c’è urgenza di portare il messaggio dell’uomo nuovo, tempio di Dio. Chi ne fa esperienza è adatto ad essere missionario.

La catechesi sul pane di vita in Giovanni (Gv 6).
Il discorso è la rivelazione che Cristo fa di se stesso come pane di vita disceso dal cielo, come espressione della sua divinità. Gesù parte dal miracolo della moltiplicazione dei pani, descritto con i termini liturgici della cena: “prese i pani e, dopo aver reso grazie, li distribuì” (vers. 11).
Nella progressiva rivelazione del mistero che arriva fino alla fine del capitolo, troviamo queste affermazioni fondamentali: realismo nell’identificazione fra la persona di Gesù e il pane che darà; il pane è il segno della sua carne e la partecipazione a questo pane costituisce una comunione di vita trinitaria che comporta il dono dello Spirito e la risurrezione corporale.
Vi è una identificazione progressiva tra i termini che ricorrono nel discorso: io sono, il pane di vita, il pane è la mia carne; fino all’identificazione più forte: “colui che mangia di me vivrà per me” (vers. 57).
L’affermazione è chiara: il pane eucaristico è Gesù stesso nella sua realtà divino-umana. Gesù insiste sulla necessità di mangiare la sua carne e di bere il suo sangue davanti alle proteste dei farisei, usando termini ancora più realistici. Realismo che viene reso più comprensibile per coloro che credono in lui in quanto è la sua carne gloriosa, vivificata dallo Spirito che sarà data ai fedeli (vers. 63).
Ignazio di Antiochia, discepolo di Giovanni, sintetizzerà questo pensiero nella sua celebre frase: “L’Eucaristia è la carne del Signore nostro Gesù Cristo, che ha sofferto per i nostri peccati e che il Padre benignamente ha risuscitato”.
Il senso dell’Eucaristia è così espresso come la pienezza della vita che viene dal Padre, che è contenuta nel Figlio ed è trasmessa da lui fino a realizzare l’identificazione vitale: “Come il Padre ha mandato me e io vivo per il Padre, così colui che mangia di me vivrà per me; … dimora in me e io in lui” (vers 57.56).
Questa comunione avviene per il dono dello Spirito che vivifica la carne di Cristo ed è al tempo stesso dono di Cristo risorto ai suoi discepoli (vers. 62-63); la vita piena di Cristo risorto fa dell’Eucaristia il pegno della vita eterna e della risurrezione finale: “… e io lo risusciterò nell’ultimo giorno” (vers 54).
Giovanni ci offre così una profonda rivelazione delle parole del Maestro e il senso pieno dell’Eucaristia, in una sintesi che arricchisce tutte le altre affermazioni del suo Vangelo.
Come completamento, per la meditazione personale, alcuni pensieri di San Tommaso d’Aquino sull’Eucaristia:
“L’Unigenito Figlio di Dio, volendoci partecipi della sua divinità, assunse la nostra natura e si fece uomo. Tutto quello che assunse, lo valorizzò per la nostra salvezza. Offrì infatti a Dio Padre il suo corpo come vittima sull’altare della croce per la nostra riconciliazione. Perchè rimanesse in noi, infine, un costante ricordo di così grande beneficio, lasciò ai suoi fedeli il suo corpo in cibo e il suo sangue come bevanda, sotto le specie del pane e del vino.
Che cosa vi può mai essere di più prezioso ?
Nessun sacramento in realtà è più salutare di questo: per sua virtù vengono cancellati i peccati di coloro che sono confessati, crescono le buone disposizioni e la mente viene arricchita di tutti i carismi spirituali. Per mezzo di esso si gusta la dolcezza spirituale dalla sua stessa fonte e si fa memoria di quella altissima carità che Cristo ha dimostrato nella sua passione.
L’Eucaristia è la più grande di tutte le meraviglie operate dal Cristo, il mirabile documento del suo amore immenso per gli uomini”.

 

 

La passione e la morte di Gesù: Gv 19 

Per comprendere la maniera in cui Giovanni interpreta la morte di Gesù, occorre tener presente che egli elimina dal racconto alcuni elementi presenti nei sinottici e ne aggiunge di nuovi, sconosciuti agli altri evangelisti. Egli elimina ad esempio il Cireneo che porta la croce dietro a Gesù, gli insulti a Gesù crocifisso da parte dei presenti e dei malfattori, i segni straordinari che avvengono prima e dopo la morte di Gesù (l’oscuramento del sole, il terremoto, lo squarciarsi del velo del tempio). Ma aggiunge dei particolari fortemente simbolici che sono soltanto suoi: Gesù porta da solo la croce, la tunica senza cuciture, Maria le donne e il discepolo prediletto ai piedi della croce, il colpo di lancia al costato da cui fuoriesce sangue ed acqua.
Occorre quindi cogliere la sua intenzione, attraverso la lettura corretta delle scelte che egli fa nei cinque episodi principali in cui articola il racconto: il cammino verso il calvario e la scritta sulla croce; la spartizione degli abiti e la tunica tirata a sorte; le donne ai piedi della croce e le parole di Gesù alla madre e al discepolo amato; il suo desiderio espresso di essere dissetato, soddisfatto con l’aceto, e l’ultima parola di Gesù; il costato aperto dalla lancia.
Gli altri evangelisti ci dicono che un uomo di Cirene che ritornava dal lavoro dei campi venne costretto a portare la croce dietro Gesù, e vedono in quest’uomo il modello del discepolo che deve seguire Gesù. Giovanni modifica intenzionalmente il racconto eliminando questo particolare: nessuno aiuta Gesù, ma Gesù porta da sè la croce. Gesù è cioè pienamente padrone di quello che gli accade ed è l’unico attore sul quale concentrare l’attenzione, perchè egli soltanto sa fino in fondo quale sia la trama dell’azione che si svolge sotto i nostri occhi. Egli, per Giovanni, non è colui che la subisce, ma ne è il vero regista.
E’ vero che sono gli uomini a decretare questa morte, ma è lui a consegnare se stesso in piena libertà e a gestire la sua passione da sovrano.
La crocifissione stessa è raccontata sobriamente: viene indicato un luogo di cui si conosce il nome (Golgota), onde precisare che la morte di Gesù avviene in un preciso punto a tutti noto, fuori della città sacra dei giudei. Una leggenda affermava che era il luogo in cui era stato sepolto Adamo, ma Giovanni non la considera neppure.
Più importante per lui è che Gesù sia crocifisso fra altri due, la cui identità non rivela, come non è interessato alle loro reazioni: non ci dice che insultano Gesù, come fanno invece Matteo e Marco, oppure che uno dei due sulla croce si converte, come fa Luca. L’importante è che Gesù stia al centro, quale sovrano in gloria nel piano di Dio. Ogni altra cosa o persona resta sullo sfondo.
E la sua sovranità è proclamata davanti a tutto il mondo dalla scritta che Pilato fa apporre sulla croce: Gesù Nazareno re dei giudei. Ma è solo Giovanni a sottolineare il fatto e propriamente non si tratta di un’epigrafe funebre, ma della motivazione della condanna. E’ una motivazione ambigua, giacchè sembra riconoscere come vera la messianità regale di Gesù. Pilato si vendica così di essere stato costretto a condannare il discusso re dei giudei? Scatta in ogni caso la protesta dei capi dei giudei, che vorrebbero modificare i termini usati, affinchè nella motivazione appaia chiaramente che quella era soltanto una pretesa di Gesù (“egli ha detto: io sono il re dei giudei”). Ma il romano mantiene il testo, scritto oltre che in ebraico, anche in latino e greco, cioè nelle lingue di allora, perchè tutto il mondo veda e sappia: Gesù è il re che regna dalla croce.
Nessuno come l’evangelista Giovanni ha sottolineato, nella morte di Gesù, il nesso misterioso tra ciò che accade, non voluto, da una parte, e la sua libertà dall’altra. Gesù è consegnato dagli uomini alla morte: Giuda lo consegna ai capi dei giudei, i capi dei giudei lo consegnano a Pilato, Pilato lo consegna ai soldati perchè lo crocifiggano. Ma dentro questa consegna (“tradimento”) operata dagli uomini, è Gesù che offre la vita da se stesso e, prima ancora, è il Padre che lo consegna. Il miracolo della croce di Gesù è proprio questo, che egli ha fatto di essa il suo trono.
Può l’umiliazione di un innocente diventare il suo trionfo? Può la forza immane del male e dell’ingiustizia che si abbatte su di noi fino a distruggerci, essere vissuta come il momento supremo della libertà, che si celebra nel dono che noi facciamo di noi stessi per la causa che ci sta a cuore? Può un corpo deturpato e flagellato diventare splendente di bellezza, anzi glorificato, cioè rivestito dello splendore e della bellezza di Dio stesso?
Comunque davanti alla croce, noi possiamo dire una sola cosa: che nel vangelo di Giovanni il luogo dove Gesù manifesta la sua gloria e quella del Padre, è posto senza esitazione alcuna tra coloro che patiscono violenza dalle circostanze della vita o dall’ingiustizia altrui, e che tuttavia fanno risplendere, proprio in quella violenza subita, la libertà, la bellezza e la gloria dei figli di Dio.
Tutti e quattro gli evangelisti raccontano della spartizione delle vesti. I beni dei condannati appartenevano ai crocifissori, ma Giovanni aggiunge il particolare della tunica senza cuciture, che non deve essere lacerata. E vede in questo fatto un adempimento del salmo 22,19, che infatti viene citato. E’ chiaro che Giovanni attribuisce a questo particolare un forte significato simbolico.
Dallo storico Giuseppe Flavio sappiamo che questa era la veste tipica del sommo sacerdote, e l’accenno all’impossibilità della lacerazione della tunica potrebbe riprendere anche il significato che nel giudaismo veniva dato alla veste del sommo sacerdote, quello di rappresentare l’unità dell’universo. E Gesù non aveva detto che sulla croce egli à capace di attirare “tutti” a sè?
Questa spiegazione sembra la più fondata: il luogo in cui gli uomini possono trovare unità è solo il crocifisso che innalzato sulla croce ci lascia la sua veste senza cuciture, perchè ci ricordiamo dell’unità profonda fra gli uomini che corrisponde al disegno originario di Dio.
Davanti al crocifisso comprendiamo finalmente il legame che ci unisce, più forte di ogni lacerazione che la storia possa aver provocato. Nel nome del crocifisso ogni differenza tra gli uomini va intessuta, quindi ricomposta e superata, con quella altrui. Il pensiero che la diversità debba essere motivo di scontro, di odio, di sopraffazione, è dunque contrario al disegno di Dio che tesse con un unico filo le vicende degli uomini. E in questa sezione del vangelo, all’atteggiamento dei soldati e della loro volontà divisoria l’evangelista contrappone l’unità dei credenti raccolti ai piedi della croce.
Altro particolare da notare: gli altri evangelisti pongono il gruppo delle donne a distanza della croce. Matteo e Marco parlano solo delle donne che guardano da lontano, perchè i discepoli erano tutti fuggiti. Luca aggiunge a queste donne che guardano da lontano, “tutti i suoi conoscenti”. Ma Giovanni annulla ogni distanza tra questo gruppo e Gesù crocifisso, collocandolo nel luogo stesso della croce. Si realizzano così le parole di Gesù del cap. 12, dove il discepolo che segue Gesù sta dove sta lui, laddove egli perde la sua vita, come il chicco di grano che muore per portare frutto. E’ proprio questa verità dell’esistenza del discepolo autentico che viene resa nel contrasto tra il “vedere da lontano”, con cui gli altri evangelisti parlano di questo gruppo, e lo “stavano presso la croce” di Giovanni.
In questa vicenda drammatica emergono particolarmente due figure: la madre e il discepolo amato. La madre di Gesù era stata già presentata dall’evangelista alle nozze di Cana e anche lì essa era stata apostrofata da Gesù con “donna”. Il discepolo amato invece era stato presentato nel racconto della cena, come colui che adagiato accanto a Gesù, si era chinato sul suo petto per conoscere il nome del traditore.
Ma qual’è l’intenzione dell’evangelista nel dirci che Gesù consegna Maria come madre al discepolo e il discepolo come figlio alla madre, con la notazione che da quell’ora (cioè dall’ora della croce che è al tempo stesso l’ora della gloria, della fecondità del dono di Gesù) il discepolo la prese con se’? Tra le molte interpretazioni la più aderente al contesto originario è la seguente: il fatto che Maria venga qui chiamata “donna” allo stesso modo in cui fu chiamata a Cana, ci dice che c’è un collegamento tra i due episodi. Ora a Cana, Maria rappresentava con il suo atteggiamento fiducioso verso Gesù, coloro che da lui attendono la salvezza e costoro (Giovanni, i primi discepoli, Natanaele), sempre nella narrazione che precede l’episodio di Cana, appartengono all’Israele che attende il messia. Maria rappresenta cioè quella parte del popolo che è aperta a Gesù, il giudaismo credente. Essa è la vergine, figlia di Sion, il grembo da cui i cristiani vengono. Il discepolo amato è invece la figura ideale del discepolo, al quale Gesù svela il suo intimo, colui che trasmette e spiega il messaggio di Gesù. Egli è la pace perchè, come leggiamo nella lettera agli Efesini (Ef 2,14-18), ha annullato nel suo sangue il muro divisorio che rende estranei e lontani i popoli, perchè tutti abitino nella stessa casa.
Altro particolare da notare: Giovanni fa precedere il racconto della morte di Gesù con l’abbeveramento mediante aceto (in realtà si tratta di vino reso fortemente acidulo, a quel tempo molto in uso specie tra i soldati come bevanda dissetante); quando ebbe preso l’aceto, Gesù disse: “Tutto è compiuto! E, chinato il capo, spirò”.
Mentre per Matteo, Marco e Luca sono gli altri che prendono l’iniziativa di dissetare Gesù, in Giovanni questa iniziativa viene da Gesù che dice: “Ho sete”. C’è quindi una sete di Gesù che deve essere soddisfatta perchè la sua missione giunga a termine, perchè si compia ciò per cui egli è venuto. Questo viene presentato come adempimento della Scrittura e il riferimento è probabilmente al salmo 69,22 (quando avevo sete, mi hanno dato aceto). In quel salmo tutto l’accento poggia sul contrasto tra la sete del giusto sofferente e l’aceto con cui viene dissetato per aggiungere sofferenza a sofferenza. In Giovanni invece il contrasto scompare, dato che l’aceto simboleggia proprio quello che Gesù cerca, se poi dice che “Tutto è stato compiuto”. Il senso della sete sembra cioè non esprimere tanto la sofferenza, quanto un bisogno più profondo che deve raggiungere il suo scopo.
Nel vangelo di Giovanni ci si dice più volte di quale sete si tratta. Gesù ad esempio domanda da bere alla Samaritana, nel cap. IV del vangelo, e la sua sete indica il desiderio di adempiere alla missione che il Padre gli ha affidato. In Giov 7, 38-39, Gesù promette a coloro che credono in lui il dono dello Spirito, che farà sgorgare dal cuore dei credenti fiumi di acqua viva, quando sarà glorificato. E sulla croce Gesù dà lo Spirito.
Sempre nel cap. IV, al v. 34, anche se non si parla di sete, ma di cibo, Gesù afferma che il suo cibo è di fare la volontà di colui che l’ha mandato e di compiere la sua opera. E, a Pietro, al momento della cattura, Gesù dice: non berrò il calice che il Padre mi ha dato? Fame e sete rappresentano quindi il desiderio, anzi il bisogno di Gesù di adempiere alla volontà del Padre che l’ha inviato. Gesù vuole bere fino all’ultima goccia il calice della sofferenza e della morte, in maniera consapevole.
Chinando il capo, Gesù “consegna” lo Spirito. Chinando il capo, cioè morendo, Gesù può dare lo Spirito perchè è stato “glorificato”, giacchè la morte in croce coincide in Giovanni con la glorificazione di Gesù.
Esso esprime i vari aspetti della passione di Gesù. Se si parla quindi di un “consegnare lo Spirito” da parte di Gesù, si parla non solo e non principalmente del rendere lo spirito a Dio, ma della consegna del suo Spirito a noi che e’ il compimento ultimo della croce. Per cui l’espressione”chinò il capo” indica una morte pienamente accettata, mentre la sottolineatura secondo cui “consegnò lo Spirito” sta a significare l’effetto di questa morte, quello che nella scena seguente viene espresso con il sangue e l’acqua, il battesimo e l’eucaristia, che la Chiesa riceve dal costato aperto del Crocifisso. In ogni caso predomina l’aspetto simbolico.
Ora nella prima lettera di Giovanni, ci viene ripetuto che sono tre a dare testimonianza: lo Spirito, l’acqua e il sangue, con un chiaro riferimento al sangue versato da Cristo e all’acqua del battesimo. “Vedere” qui non indica una semplice vista fisica, ma il vedere della fede. Il discepolo che ha ricevuto lo Spirito, coglie cioè il senso del costato trafitto da cui esce sangue ed acqua e annuncia la fecondità della croce, nella quale è radicato sia il dono dello Spirito che l’eucaristia e il battesimo che alimentano la vita della comunità.
Nella croce arriva quindi a compimento tutto il senso delle Scritture: sorge la nuova Pasqua, quella del vero agnello pasquale a cui non viene spezzato alcun osso, ma che viene innalzato per noi. E si adempie così la misteriosa profezia del profeta Zaccaria che aveva parlato di un misterioso uomo trafitto per colpa del popolo, che diventa in coloro che lo contemplano origine della conversione.
Sulla croce Gesù è innalzato, per attirare tutti a sè. Gli uomini debbono semplicemente cogliere il significato di quella morte per ricevere lo Spirito e la vita nuova che essi debbono testimoniare nel mondo.
Davanti alla croce di Gesù, ma anche davanti alla morte di qualsiasi innocente, di fronte alla sofferenza senza motivo di tanti uomini e donne – senza motivo cioè che non sia quello della violenza e della sopraffazione di altri uomini – occorre anzitutto sostare, capire, comprendere, contemplare colui che è stato trafitto. Solo dopo saremo in grado di agire perchè diminuisca la misura di sofferenza e di morte che regnano nel mondo. Ma saremo in grado di agire nella maniera giusta, solo se avremo contemplato e compreso il senso di quello che è accaduto allora, e continua ad accadere ancora adesso, nei corpi martoriati degli uomini e delle donne innocenti.