Osea, Amos, Michea

Documento

Il profeta Osea 

Osea esercitò il ministero profetico nel regno di Israele per circa 50 anni, nell’8° secolo A.C.
La sua predicazione era iniziata durante il regno di Geroboamo II, ed era quindi contemporaneo di Amos, anch’egli attivo nel regno di Israele, e di Isaia e di Michea che predicavano nel regno meridionale di Giuda.
Osea visse fino alla caduta della sua nazione per opera degli Assiri nel 722 A.C.
La sua sfortunata vita famigliare gli servì da tragico modello per il suo messaggio profetico.
Aveva sposato una donna, Gomer, con i più alti ideali di matrimonio.
In Os 1,2 riferisce: “…prenditi in moglie una prostituta”, ma ciò è detto con il senno di poi, in considerazione di ciò che era diventata, non di come fosse al momento del matrimonio.
Se fosse stata impura al momento del matrimonio, l’analogia con Israele non reggerebbe, poichè all’inizio Israele era fedele e fu solo in seguito che si prostituì, come aveva fatto Gomer.
Il primo figlio che gli nacque lo chiamò simbolicamente Izreel, con riferimento all’imminente castigo su Israele.
La secondogenita, una bambina chiamata Non-amata, non era figlia di Osea, ma di padre rimasto sconosciuto.
Neppure il terzogenito di Gomer, chiamato Non-mio-popolo, era figlio di Osea.
Riflettendo sulle disgrazie della sua situazione famigliare, Osea pensava alla sofferenza che la sua infedele nazione aveva inflitto a Dio.
Tuttavia, come Osea aveva amato Gomer nonostante le sue infedeltà, così Dio amava Israele.
Dopo sei anni di matrimonio, Gomer lasciò la casa per diventare una prostituta. Anche allora però Osea non cessò mai di amarla. Gomer era caduta talmente in basso da meritare di essere venduta come schiava. Per evitare ciò, Osea pagò il prezzo del riscatto e se la riportò a casa.
Il libro si può dividere in due parti di diversa lunghezza. La prima parte, cc. 1-3, è principalmente biografica e tratta della turbolenta vita famigliare di Osea.
Il filo del discorso è difficile da seguire perchè la narrazione passa da Osea, che si rivolge alla moglie, a Dio che si rivolge alla nazione e i due argomenti si intrecciano.
La seconda parte, cc. 4-14 contiene messaggi, riflessioni, profezie, note per prediche, commenti e previsioni di castighi.
Poichè non sono datati, è difficile stabilire se questi messaggi siano stati pronunciati prima o dopo la caduta di Samaria nel 722 A.C.. Probabilmente alcuni sono precedenti, altri successivi a tale data.
Il messaggio spirituale di Osea mette in risalto l’instancabile amore di Dio, che continua ad aver cura del suo popolo nonostante tutte le provocazioni immaginabili e possibili.
Per Dio non c’era più motivo di continuare ad amare il suo popolo; se lo fece, era solo perchè il suo amore è senza limiti. Una commovente immagine di questo amore si trova in Os 11,1-4.
Un secondo tema del libro di Osea è quello dell’iniziativa di Dio nei confronti del suo popolo. La grazia è misericordia offerta a quelli che non la meritano. In questa categoria rientrano tanto Gomer quanto Israele.
Terzo, Osea sottolinea la realtà e l’enormità del peccato di Israele. Non sottovalutava il fatto che il comportamento di Gomer e di Israele era decisamente riprovevole e che tale condotta non poteva essere ignorata in nome di un sentimentalismo scambiato per amore.
Il vero amore si rende conto di ciò che è realmente in questione e chiama le cose per nome. Ciò che Israele e Gomer facevano era peccato e alla fine li avrebbe portati alla rovina.
Quarto, lo sbaglio fondamentale di Israele consisteva nell’avere abbandonato la conoscenza di Dio (4,6). In questo contesto di conoscenza significa “capire”, non un semplice ricordo di fatti.
Israele era molto lontano dal capire Dio, come Gomer era lontana dal capire Osea.
Quinto, il rinnovamento deve essere preceduto dal pentimento. Dio chiedeva a Israele di riconoscere il suo peccato e di far ritorno a Lui.

Schema del libro:
1)    Vita di Osea come profezia        1,1-3,5
2)    Messaggio di giudizio su Israele    4,1-13,15
3)     Promessa di benedizione a patto
che Israele si penta                    14,1-10

Il profeta Amos

Amos operò durante il regno di Ozia in Giuda (767-739 A.C.) e di Geroboamo II in Israele (782-753 A.C.). Il regno di Israele sarebbe caduto per opera dell’Assiria (722 A.C.) solo 30 anni dopo la predicazione di Amos.
I 50 anni che precedettero l’attività di Amos furono un periodo di relativa calma e prosperità sia per Israele che per Giuda. Le rotte commerciali erano state riaperte nella regione, il commercio prosperava, si accumulava ricchezza e prevaleva la pace.
Sotto tale apparente prosperità, tuttavia, covava un male nascosto. I poveri erano oppressi, i deboli intimiditi, la giustizia calpestata. La religione era pura apparenza, la corruzione un modo di vita.
In tale situazione si trovò ad operare Amos.
Nel senso ristretto del termine, non era un profeta nè apparteneva ad alcuna comunità profetica. Dio lo chiamò dalla sua normale occupazione di pastore e agricoltore per richiamare Israele alla legge del Signore.
Il fatto di provenire dal Sud (Giuda), da un piccolo villaggio (Tekoa) e di non possedere un’istruzione formale rese ulteriormente difficile la sua missione al nord (Israele).
Quando fece notare al popolo che Dio dava scarsa importanza alle manifestazioni pietistiche esteriori prive di contenuto morale, fu scacciato dal paese.
Per il coraggio dimostrato, Amos è considerato un modello di attaccamento alla propria vocazione in mezzo alle avversità.
La predicazione di Amos è diretta in primo luogo contro la mentalità naturista del tempo; come aveva fatto Elia prima di lui, Amos riferisce a Dio tutti gli attributi che i suoi contemporanei danno ai falsi dei come Baal: autorità cosmica che regola le stagioni e la fecondità (4,4-12). Ma Dio è di più: conosce Israele (3,2) e vigila su di lui. Gli interventi suoi nella storia ne sono il segno, nel passato (2,9ss; 3,2) e nel presente.
Il compito di Amos consiste nell’annunciare l’imminente incontro che si va realizzando tra Dio e il suo popolo (4,12). Le caratteristiche di questo passaggio di Dio (5,17) sono inattese; sarà un giorno di tenebra, non di luce (5,18-20), l’occasione di un massacro (6,8-11) che raggiungerà sia Israele che le nazioni vicine (1,3-2,16) e al quale nessuno sfuggirà (2,13-16; 9,2-4).
I capi d’accusa che Amos pronuncia contro Israele sono diversi. Ma oltre l’ambiguità del culto (5,26; 8,14), l’ipocrisia (5,14ss.21-23), protesta soprattutto contro il disprezzo generalizzato della giustizia (5,7.24; 6,12): la vita sociale non è sufficientemente penetrata da quella armonia che fa nascere la reciprocità nel rispetto dei diritti di ciascuno.
Il legame che si stabilisce con i contratti di alleanza è dimenticato, nel senso della fraternità che ne dovrebbe scaturire e si osa trattare lo stesso giusto con ingiustizia (2,6; 5,12).
Amos non parla mai della giustizia di un Dio che condanna. Egli parla soprattutto di salvezza e fa sua la missione di invitare il Regno del Nord a un ritorno a Dio che sarà anche un ritorno a Giuda.
La dinastia di Davide è barcollante, ma le è promessa la restaurazione.
Tra gli spunti teologici in Amos possiamo dire che la figura di Dio è presentata come dominatore della storia passata, presente e futura. Dio ha scelto Israele come suo popolo prediletto e per tutta risposta sono stati commessi molti gravi peccati.
Amos porta all’attenzione il giudizio che verrà: il Signore ruggirà da Sion e il popolo tremerà di paura. Ma Amos fa notare anche che Dio piange sui peccati del suo popolo, non trova nessuna soddisfazione nel castigarlo e gli offre il suo perdono, se Israele è disposto a chiederlo. Ma Amos mostra scarsa fiducia nel pentimento di Israele.
Infine il profeta fa sapere alla nazione quali siano le richieste di Dio: non portare altri sacrifici e offerte al Tempio, ma cercare la giustizia, il bene, l’onestà e il benessere per tutto il popolo.
La giustizia deve scorrere come un fiume nel suo letto e la rettitudine come un torrente perenne.

Schema del libro:
1)  Oracoli contro le nazioni        1,1-2,16
2)  Tre prediche profetiche        3,1-6,14
3)  Visione di Amos                    7,1-8,8
4)  Epilogo                                    8,9-9,15

Il profeta Michea

L’epoca in cui vive Michea è evocata in 2 Re 17-20 ed è drammatica.
Michea biasima ferocemente sacerdoti e profeti; critica la loro disonestà; condanna la falsa mistica.
Riassume il suo messaggio in poche parole (3,8). Rivela tutta la sua forza perchè cosciente dell’opposizione che incontra la parola profetica (2,6ss).
Annuncia un duro giudizio per le capitali Samaria e Gerusalemme, giudizio motivato dall’idolatria e soprattutto dall’ingiustizia sociale (1,2-7; 2,1-11).
Il messaggio è tuttavia pieno di speranza; se non per tutto il popolo, almeno per un “resto” (4,7; 5,2.6.7) che “si ricorderà delle grandi azioni compiute da Dio” (6,5), “conoscerà le sue esigenze”: la giustizia, l’umiltà, e c’è la possibilità di un perdono di Dio in cambio della fedeltà (7,18-20).
Rimane forte la fede nella realizzazione delle promesse fatte a Davide: la certezza che in quella stirpe gloriosa nascerà un re che saprà unificare il regno e governarlo alla maniera stessa di Dio (5,1-4).
Michea era nativo della piccola città di Moreset, vicina a Gerusalemme. Egli svolse il suo ministero al tempo di Iotam, di Acaz e di Ezechia, essendo contemporaneo di Isaia.
Fu perciò testimone di grandi avvenimenti: l’invasione dell’esercito assiro, la caduta di Damasco, la guerra tra Israele e Giuda, la conquista della Galilea, la distruzione di Samaria e del regno di Israele, la sconfitta dell’Egitto per mano di Sargon. Era un periodo violento e tumultuoso.
Il libro di Michea è una raccolta di prediche e di profezie, disposte per argomento anzichè in ordine cronologico.
Lo stile è vario, a seconda del periodo e delle circostanze. A volte Michea è aspro e vigoroso, altre volte tenero e compassionevole. Il linguaggio che usa è sempre diretto e forte.
Il messaggio di Michea è rivolto principalmente a Giuda, il regno meridionale, anche se non dimentica il regno di Israele e le nazioni confinanti.
La sua attività è dedicata in particolare alla difesa degli oppressi. Viveva in una società in cui i ricchi proprietari terrieri sfruttavano i poveri, opprimendoli senza pietà. I contadini, gli agricoltori e i piccoli proprietari erano sfruttati da coloro che avevano conoscenze nelle alte sfere.
Tale abuso di potere fu attaccato con forza da Michea.
Anche se proveniva da una zona rurale, egli era perfettamente al corrente della corruzione della vita di città e denunciò Gerusalemme in particolare. Vedeva nella città il simbolo della corruzione nazionale: corruzione nell’amministrazione della giustizia, nei funzionari di governo, nei capi religiosi.
Il fondamento del messaggio di Michea era la giustizia di Dio, analogamente al messaggio del profeta Amos, che stava predicando le stesse cose nel regno di Israele.
Michea sottolinea che ciò che Dio richiede da noi è un comportamento retto, giusto, non formale soltanto. In uno dei versetti più conosciuti dell’Antico Testamento Michea sintetizza ciò che il Signore richiede dall’uomo: “Praticare la giustizia, amare la pietà, camminare umilmente con il tuo Dio” (6,8)
Michea presenta un messaggio di giudizio: se la nazione non cambia il suo comportamento, Dio la giudicherà e la distruggerà (3,12).
Un secolo più tardi Geremia ricorda quelle parole e le applica alla propria profezia (Ger 26,18).
Michea inoltre offre una delle più dettagliate descrizioni dell’avvento del Messia che si trovino nell’Antico Testamento (5,1-14). Il redentore verrà da Betlemme e sarà un essere umano (non un angelo).
Dovrà avere le sue origini dall’antichità, “dai giorni più remoti”. radunerà attorno a sè un gruppo di giusti, inaugurerà sulla terra un regno di giustizia e si prenderà cura dei bisognosi.
Il Nuovo Testamento vede queste profezie pienamente adempiute in Gesù Cristo.
Michea proclama un regno universale di pace che abbraccerà tutti i popoli. Le spade saranno trasformate in aratri e le lance in falci; sarà un periodo di pace, di prosperità e di benessere (4,1-5).
Dio regnerà sovrano e gli uomini “non impareranno più l’arte della guerra”.

Riflessione spirituale … a proposito di Michea 6,8:

“Uomo, ti è stato insegnato ciò che è buono e ciò che richiede il Signore da te: praticare la giustizia, amare la pietà, camminare umilmente con il tuo Dio”.

Ogni buon esempio viene da Dio che per primo mette in pratica.
Fin dal momento della creazione, Dio “cammina” nel giardino dell’Eden e Adamo ed Eva sentono il suo passo (Gen 3,8): quella di Dio è una “voce in cammino” sulle ali di una brezza leggera, e questa voce si fa trovare, raggiunge ogni angolo del giardino, così che Adamo e sua moglie, per quanto cerchino di sfuggirla dopo aver commesso il peccato,  non possono assolutamente evitarla.
La voce di Dio parla attraverso la loro coscienza e per questo li accompagna dovunque se ne vadano.
Inoltre questa voce di Dio non cessa di parlare, di farsi comprendere e non si esaurisce mai.
Diceva San Gregorio Magno: “Il discorso divino cresce insieme a chi lo legge”.
Ed effettivamente la voce di Dio che parla nel nostro cuore cresce insieme a noi, nella misura in cui noi stessi cresciamo.
Il serpente rappresenta l’illusione, il sogno strisciante di uno che sta fermo, che vuole tutto subito, che non assume il rischio di un percorso, che non accetta la fatica di mettersi in cammino… Il serpente, l’animale “senza gambe” è il solo che l’uomo non si senta di considerare suo compagno, perchè non può camminare insieme a lui.
Invece questa voce di Dio che si rivela gradualmente, poco per volta, insegna all’uomo a camminare sulle sue gambe, a non strisciare più nell’illusione.
Si tratta dunque, per l’uomo, di “camminare con Dio”. Solo chi cammina con Dio vive per davvero.
Camminare insieme è una cosa che si deve imparare, che richiede un lungo apprendistato, perchè non si cammina da soli, per proprio conto, e il passo va sempre controllato per riequilibrarne il ritmo sulla misura di chi cammina insieme a noi.
Chi vuol imporre agli altri il suo passo senza tener conto di nulla e di nessuno, è orgoglioso ed egoista, e si ritroverà prima o poi in completa solitudine….
Ma proprio Dio da esempio di umiltà invitando l’uomo a camminare con Lui.
Il problema non è tanto se o come l’uomo possa camminare con Dio, ma se Dio può davvero camminare con noi: il Signore può abbassarsi fino a tanto ?
In effetti non esiste alcun impedimento, considerata la libera disponibilità di Dio, ma soltanto una precisa condizione da parte nostra, evidenziata proprio dalle parole del profeta Michea (Mi 6,8): sono necessarie la giustizia, la misericordia e la fede.
Camminare con Dio è un modo di mettere in primo piano la fede, e rappresenta l’atteggiamento del credente: camminare con Dio significa prendere esempio da Lui che si “abbassa” per camminare con noi.
Il nostro cammino umano, con le sue fatiche, le sue difficoltà, i suoi problemi, le sue cadute, poco per volta ci insegna ad essere umili, ed è allora che noi impariamo a camminare con Dio, è allora che scopriamo la gioia che ci porta la sua Presenza, la grazia di essere “in comunione” con Lui.