Qoelet

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L’autore del libro definisce se stesso “qoelet” (cioe’ il predicatore) e questo termine ha in sè il senso di riunire, radunare. Qoelet sarebbe l’oratore di valore, maetro di sapienza, capo dell’assemblea dei saggi.
L’autore si propone di fare il bilancio dei beni e dei mali che costituiscono la vita umana e di valutare se questa vita vale la pena di essere vissuta (1,3).
L’inchiesta è capricciosa. Non è sotto forma di dialogo, ma piuttosto di monologo, di soliloquio. L’autore discute, dopo averle cercate, diverse opinioni e si orienta verso altre forme di pensiero, che gli forniscono l’occasione di precisare o di rettificare le opinioni precedentemente espresse.
Lo scritto si compone di due serie di riflessioni. La prima serie è la più importante e sviluppa il tema stesso del libro; ha punti simili a Giobbe. La seconda serie comprende piccoli gruppi di sentenze.
L’autore sembra deluso. Non vede altro che tristezza nel movimento perpetuo dell’universo (1,4-10) e nella miserevole condizione dell’umanità (1,14.18; 2,1.11.16/23). Ad un punto tale che la morte gli sembra preferibile alla vita (2,17; 4,2; 6,3).
In queste condizioni è comunque ancora possibile accedere ai piaceri, principalmente a quelli della tavola (2,24-25; 3,12-13.22; 5,17-19; 8,15; 9,7-10; 11,7.8). E’ tale la profondità del suo pessimismo che esprime incertezza sul problema della retribuzione ultra-terrestre e sulla immortalità dell’anima (3,18-21). Eppure l’autore afferma la sua fede in Dio. Loda la Sapienza divina (7,12.19; 9,13-18) e professa con convinzione la concretezza della Provvidenza (3,11.14-15; 8,17; 11,5).
E’ Dio che dona e riprende all’uomo la vita (5,17; 8,15; 9,9, 12,7), le ricchezze (5,18; 6,2), le gioie (2,24; 3,13; 5,18-19); è Lui che dona la disgrazia e il benessere (7,14).
Qoelet non ignora la distinzione tra bene e male (3,16; 4,1; 5,7; 7,16; 8,10.14; 9,2) e se non conosce la modalità della retribuzione eterna, almeno non ha dubbi sul giudizio (3,17; 11,9; 12,13-14). Non gli sfugge dunque la nozione di una certa azione morale (2,26; 7,26; 8,5.13).
Se egli considera come doni di Dio i piaceri di qui (2,24; 3,13; 5,18; 9,7) ne condanna però l’abuso (7,26-27; 9,13) e ne proclama la vanità (2,1-2; 11,8.10).
Si tratta quindi di un amico della vita (11,7) che confida nella prescienza di Dio (6,10). E’ un realista.
Qoelet non è figlio di Davide. I riferimenti sono una finzione letteraria.
Qoelet e Giobbe agitano problemi critici analoghi: l’enigma della vita, la sofferenza, il male, l’incertezza del destino dell’uomo. Entrambi invitano a cercarne la soluzione in Dio.
Tuttavia Qoelet registra un progresso su Giobbe. Quest’ultimo considera il benessere terrestre come una soddisfazione adeguata; Qoelet arriva fino ad associare il dolore alla felicità stessa che si può provare quaggiù.
Giobbe si meraviglia che il giusto non sia colmato di beni; Qoelet constata che anche quando è colmo l’uomo non è felice.
Nei suoi aspetti apparentemente negativi l’autore testimonia la necessità d’una più completa rivelazione divina sul destino dell’uomo nell’al di là, collegato al comportamento dell’uomo sulla terra.
Il libro ha il carattere di un’opera di transizione. Le certezze tradizionali sono scosse, ma niente di fermo viene a rimpiazzarle. Mettendo in evidenza l’insufficienza delle antiche concezioni e forzando gli spiriti ad affrontare gli enigmi umani, il libro fa appello a una rivelazione più alta.
Dà una lezione sul distacco dai beni terrestri e, negando la felicità dei ricchi, prepara il mondo a udire: “Beati voi poveri” (Lc 6,20).